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ILVA, Pantalone paga
giovedì 18 gennaio 2024, di
Lasciano l’amaro in bocca, ma purtroppo non sorpresi, le parole pronunciate di recente dal Ministro Adolfo Urso che, sottolineando l’urgenza di un ennesimo intervento drastico da parte dello Stato, si è lamentato del comportamento omissivo tenuto dal socio di maggioranza dell’Ilva: “Nessuno degli impegni presi è stato mantenuto”.
C’è qualcosa che non va nel metodo con cui lo Stato gestisce da anni le vicende dell’Ilva, soprattutto in ordine agli interventi che i proprietari degli impianti avrebbero dovuto effettuare al fine di garantire il rispetto dei vincoli ambientali ai fini della tutela della salute umana e della sicurezza del lavoro.
Innanzitutto, non hanno funzionato le Autorizzazioni Integrate Ambientali (A.I.A.) che imponevano un preciso cronoprogramma di interventi di risanamento strutturale: le rilevazioni del superamento dei limiti di legge posti alle emissioni di fumi inquinanti e di polveri nocive ha determinato l’intervento della Magistratura, che poneva i singoli impianti sotto sequestro.
La nomina di un Custode giudiziario, pur mantenendo in esercizio l’attività, imponeva a costui di assumere una serie di decisioni e di interventi necessari per riportare a norma la situazione: così facendo, il gestore dell’impianto si sentiva allo stesso tempo spossessato e deresponsabilizzato. In pratica, da una parte affermava di avere le mani legate e dall’altra le allargava, dicendo che non poteva più intervenire: un pasticcio.
C’era stato un doppio errore.
In primo luogo, le A.I.A. prevedevano la chiusura degli impianti dell’ILVA come sanzione da comminare nel caso di inadempimento da parte del gestore dell’impianto in ordine agli interventi di risanamento: fermare gli altiforni, che lavorano a ciclo continuo, significa compiere un danno irreparabile. La sanzione, teoricamente draconiana, era inapplicabile. L’intervento suppletivo della Magistratura, che comunque lasciava gli impianti in attività, determinava un cortocircuito tra gli obblighi dell’A.I.A. che incombevano al titolare degli impianti e le iniziative del Custode. Non solo, le sanzioni penali previste a carico degli Amministratori determinavano il fuggi-fuggi: nessuno si voleva prendere la responsabilità della gestione. Gli scudi penali, prima messi, poi tolti e rimessi, sono stati una pezza a colori.
Il secondo errore era stato inizialmente di tipo sistematico: occorreva coordinare da subito le norme penali generali ed astratte relative alle immissioni inquinanti con la disciplina transitoria europea volta a conformare gli impianti siderurgici esistenti alle “migliori tecniche esistenti”. Mancando queste norme speciali, la Magistratura non poteva far altro che intervenire bruscamente.
Le intenzioni cui si ispiravano le A.I.A. erano state sicuramente buone, ma il metodo utilizzato era sbagliato: le Autorità pubbliche avrebbero dovuto far sottoscrivere appositi atti di sottomissione ed impegno agli Amministratori della società che gestiva gli impianti, imponendo il rilascio di una cauzione assicurativa a prima richiesta e senza eccezioni, di importo corrispondente al valore stimato degli interventi da compiere. In caso di inadempimenti, la cauzione sarebbe stata escussa gradualmente dal Ministero vigilante che avrebbe potuto disporre gli interventi in danno avendo il denaro necessario a propria disposizione.
Di recente, ci sono stati due altri problemi: da una parte, i bruschi aumenti dei costi del gas necessario a mandare avanti gli impianti; dall’altra, gli interventi di decarbonizzazione della produzione siderurgica che comportano una profonda trasformazione degli impianti.
E’ ben noto, in proposito, che non solo negli Stati Uniti l’Amministrazione Biden ha ottenuto dal Congresso la approvazione di un provvedimento con cui si dispongono colossali incentivi per la transizione ambientale, ma che nell’Unione europea la Commissione ha dato il via libera agli Aiuti di Stato alle imprese al medesimo fine, nel quadro delle strategie delineate nel Green Deal e dal RePowerUe, autorizzando numerosissime richieste da parte di Austria, Belgio, Francia, Germania e Spagna. In pratica, sono gli Stati che si stanno facendo carico dei colossali investimenti necessari a decarbonizzare la produzione siderurgica ed a creare infrastrutture produttive nuove, come le fabbriche di batterie elettriche ad uso automobilistico.
La questione dell’Ilva si è fatta ancora più complessa: da una parte si sono accumulati i debiti verso i fornitori per via dell’aumento dei costi dell’energia; dall’altra c’era da stabilire esattamente chi si dovesse fare carico dell’onere di questi interventi di decarbonizzazione previsti nel PNRR.
La strategia di decarbonizzazione, estremamente complessa, si intreccia in modo inestricabile con quella del risanamento degli impianti dell’Ilva, e soprattutto degli Altiforni che utilizzano carbone e gas per la produzione di ghisa: in prospettiva, si dovrebbe passare all’utilizzo di idrogeno verde per la prima fase di riduzione dell’ossido di ferro in vista della successiva lavorazione di questo ferro “preridotto” attraverso forni elettrici. Il fatto è che questa nuova tecnica di produzione, con cui verrebbero abbattute drasticamente sia le emissioni di CO2 che quella di polveri e fumi inquinanti, non è oggi applicabile agli Altiforni.
Il problema è rappresentato dunque dal futuro degli Altiforni dell’Ilva: nessuno ha il coraggio di deciderne oggi lo spegnimento. Andrebbero comunque risanati, ma in una logica che viene contemporaneamente superata da quella della decarbonizzazione con l’idrogeno verde che però non si applica agli Altiforni.
La ricapitalizzazione dell’Ilva, la partecipazione all’aumento di capitale che è stata chiesta dalla parte pubblica al socio privato a fronte dell’apporto di risorse pubbliche per la decarbonizzazione, si colloca in una incertezza strategica complessiva.
L’Ilva è in una situazione che si è fatta nel tempo sempre più pasticciata: ora se la accolla lo Stato. Pantalone paga.
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