L’Irlanda, da simbolo di crescita miracolosa a caso emblematico di “leprechaun economics”: il PIL gonfiato da multinazionali e tax arbitrage non riflette la vita reale degli abitanti.
Per tutti noi non particolarmente versati nelle secrete cose dell’economia e della finanza internazionale, ma animati da semplice curiosità intellettuale, fino a qualche giorno fa era un mistero e un motivo di profonda meraviglia vedere che un paese un tempo povero come e forse più del nostro sud, nel giro di pochi anni era balzato non dico a posizioni mediane nel ranking mondiale delle economie, ma addirittura ai primissimi posti.
Sto parlando dell’Irlanda, un Paese che nei miei ricordi turistici di qualche era geologica fa è indelebilmente associato a un forte odore di torba bruciata, a vecchi pub affumicati e innumerevoli pecore che invadono strade strettissime e sperdute nella campagna.
Poi d’improvviso il mistero si è dissolto, esattamente quando nei giorni scorsi The Economist ha pubblicato la sua classifica annuale dei Paesi più ricchi del mondo, ma quest’anno l’Irlanda è stata esclusa, perché i suoi dati sul PIL pro capite risultano “inquinati dal tax arbitrage”, cioè la pratica adottata dalle multinazionali di dichiarare reddito, plusvalenze e transazioni nel paese che applica l’aliquota fiscale più bassa o più vantaggiosa, ma la stragrande maggioranza di questi profitti non rimane in Irlanda: viene immediatamente spostata verso le case madri o altri paradisi fiscali (spesso tramite pagamenti di dividendi o royalty), un fenomeno noto come profit shifting. Insomma, i profitti spostati artificialmente dalle multinazionali in Irlanda ne gonfiano le statistiche economiche. [...]
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