Dal gas alle rinnovabili, le conseguenze energetiche della guerra in Ucraina: cosa succede e cosa può fare l’Italia. L’intervista a Mariutti

Stefano Rizzuti

01/03/2022

01/03/2022 - 20:44

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Enrico Mariutti, presidente dell’Isag, spiega a Money.it quali sono le conseguenze della guerra russa in Ucraina dal punto di vista energetico e quali sono gli scenari possibili per il futuro.

Dal gas alle rinnovabili, le conseguenze energetiche della guerra in Ucraina: cosa succede e cosa può fare l’Italia. L’intervista a Mariutti

La guerra in Ucraina e le sanzioni contro la Russia hanno inevitabilmente conseguenze dirette sull’Europa e sull’Italia. Soprattutto dal punto di vista dell’approvvigionamento energetico, con il rischio di un importante taglio alla fornitura del gas russo (da cui l’Italia dipende).

Per capire quali potranno essere le conseguenze del conflitto ucraino e, allo stesso tempo, le possibili soluzioni per il futuro, Money.it ha parlato con Enrico Mariutti, ricercatore e presidente dell’Istituto di Alti studi in geopolitica e scienze ausiliarie (Isag).

Quali saranno, a livello energetico, le conseguenze del conflitto in Ucraina?

Prima di tutto c’è un dato di certezza: con tutta probabilità Nord Stream 2 è un progetto nato morto. Al di là di come si evolverà la situazione è probabile che in quel gasdotto non passerà mai gas. E questo ha una serie di conseguenze, perché la Germania e l’Europa avevano fatto conto su quella rotta. Poi ci sono due scenari estremi, con in mezzo diverse scale di grigio: il primo è che la Russia non ci taglia la fornitura del gas e i prezzi seguono le dinamiche di mercato, quindi lasciando perdere la fiammata di ora legata ai timori che succeda qualcosa sul versante gas.

E il secondo scenario?

È l’opposto, con i russi che chiudono i rubinetti. Lì lo scenario diventa molto più complicato da prevedere sul versante prezzi, perché bisogna vedere come reagisce l’Ue. Ora c’è sul tavolo una road map molto vaga per aumentare le importazioni dai canali già attivi, come per l’Italia con l’Algeria. Un secondo step è sostituire anche in Italia le centrali a gas con le centrali a carbone: non vuol dire che chiudiamo tutte quelle a gas, vuol dire che si riattivano quelle ferme per ridurre il più possibile il consumo di gas. E l’ultimo scenario è il contingentamento dei consumi. Quindi dire, per esempio, che tu non puoi consumare più di un tot di gas per il riscaldamento domestico.

Quando capiremo quali saranno gli effetti anche pratici, per esempio sul consumo di gas?

Sui prezzi è molto difficile dirlo: tutto dipende dai flussi di gas della Russia. Lì il discorso è molto semplice, se chiudono è un countdown: abbiamo delle scorte per qualche settimana. Dipende tutto dalla politica, è difficile fare una previsione. Se vengono chiusi i rubinetti poi bisognerebbe capire a quanto arriva il prezzo del gas in Europa: magari riesci con le scorte ad arrivare al prossimo autunno, ma sui prezzi il discorso è diverso.

Cosa può e deve fare l’Italia per rispondere alla crisi ucraina sul fronte energetico?

Nel giro di 1-2 anni le uniche soluzioni possibili sono finanziarie, cioè coprirsi dal rischio. Se succede qualcosa l’Italia dovrà spendere un mare di soldi, perché le forniture russe non le possiamo sostituire. Potremmo importare il gas naturale liquefatto, potremmo aumentare un po’ le importazione dall’Algeria, ma il 40% delle forniture sono russe ed è velleitario pensare che se ce le tagliano si possono sostituire in qualche mese. Quindi bisogna cautelarsi dal punto di vista finanziario e questo vuol dire per esempio parlare di bond comuni in Europa.

E in un periodo più lungo cosa si può fare?

Nel medio periodo chiaramente bisogna diversificare l’approvvigionamento. Anche le nostre riserve naturali non bastano, sono piccole. Visto che la situazione si manterrà complessa per anni, aumentare l’estrazione può avere un senso, ma non basta. Per diversificare dobbiamo guardare all’estero, ma è una profonda contraddizione perché guardare all’estero vuol dire costruire infrastrutture, che siano gassificatori o altro, per permettere a questo gas di viaggiare: però sono investimenti completamente bloccati dalla transizione ecologica.

E la riattivazione delle centrali a carbone proposta dal governo è realmente utile?

Lì c’è un discorso di emotività, da una parte e dall’altra. Le centrali spente che abbiamo sono poche, non vanno a sostituire le forniture russe, ma vanno a contribuire. Pure i tedeschi hanno detto che non ci deve essere un fanatismo e si potrebbe spostare in avanti il phase out. Da noi non ne abbiamo così tante per dire a Putin di stare attento e non tirare troppo la corda. Quindi è solo un aiuto.

La soluzione può essere quella delle rinnovabili?

A breve sicuramente non ci facciamo niente, anche perché siamo in un periodo d’inflazione globale e il risultato è che da due anni il prezzo di pannelli e pale aumenta, quindi non siamo neanche nella situazione ideale per installarli. Senza contare che quell’industria lì è già surriscaldata: non puoi pensare di produrre il doppio dei pannelli quest’anno. Quindi nel breve periodo non ci fai niente. Nel lungo periodo io sono scettico per le caratteristiche intrinseche delle rinnovabili, non per motivi ideologici. In Italia la media di funzionamento è di 2mila ore l’anno per ogni pala, per i pannelli 1.200: in un anno ci sono 8.760 ore. Non sono tecnologie rivoluzionarie. Sono tecnologie che si possono integrare ma in quantità limitata. E soprattutto tenendo ben presente dove vengono installate.

Quindi la crisi ucraina può rinviare la transizione ecologica?

Che venga rinviata è certo, la Germania l’ha già detto. Per ora che lì ci sia un cambiamento di rotta è indiscutibile, poi qualcuno sostiene che la transizione ecologica è morta. Io questo non lo credo, perché continuiamo a sottovalutare gli effetti della crisi climatica e a collocarli troppo lontani nel tempo: ci fissiamo sull’innalzamento dei mari, ma gli aspetti drammatici sono gli impatti sull’agricoltura che stanno diventando catastrofici. Tutti i produttori del mondo hanno prodotto drasticamente meno nell’ultimo anno. Non credo che si tornerà indietro, ma che all’interno della riflessione sulla transizione entrino nuovi temi di quello sono sicuro, come l’indipendenza strategica. Ora ci andiamo a legare ai pannelli cinesi dopo esserci legati al gas russo? È una domanda che risuona ormai molto più forte nelle autorità comunitarie.

Quali nuovi mercati si aprono per l’Italia? Quelli del gas liquefatto, il Nord Africa?

È un bel caos purtroppo. Il gas liquefatto ha un grosso problema: costa molto più. Per di più mentre tu costruisci i gassificatori ci deve essere dall’altra parte del mondo qualcuno che costruisce un hub per la liquefazione. Se si sviluppa solo la domanda, se aumenta il numero dei gassificatori senza che aumenti la capacità produttiva, questo non farà altro che far schizzare i prezzi. Sarebbe meglio importare ’via tubo’, ma ci vorrebbero anni e ci siamo incasinati la vita da soli, perché un Paese molto interessante sarebbe stata la Libia, ma ora è sotto il controllo turco, russo e non certo italiano. Si parla di potenziare i collegamenti con l’Algeria, possibile. Teniamo presente che è sempre stata filo-russa, ci potrebbero essere delle difficoltà. C’è anche il Tap, ma ora passa in mezzo alla Turchia, non dovrebbe essere così la diversificazione. Un mercato diversificato per davvero è quello petrolifero. Con il gas è molto più complicato.

Quindi la soluzione quale può essere: mettere tutte insieme queste ipotesi dal carbone alle rinnovabili al gas liquefatto?

Tutte insieme possono rappresentare una risposta a questa crisi, tenendo presente che non torneremo mai al livello del gas russo neanche con questo mix. Perché l’Europa è rimasta così ancorata al gas russo nonostante la ricattabilità? Perché era terribilmente conveniente. Ormai per rimediare bisogna ragionare nel medio-lungo periodo, perché ci serve una nuova gallina dalle uova d’oro: e penso a una tecnologia più che a un Paese.

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