Il sistema bancario italiano, tra pressioni commerciali, omertà diffusa e governance autoreferenziale, continua a sacrificare etica, fiducia e dignità dei lavoratori sull’altare del profitto.
Il ritorno delle pressioni commerciali nei gruppi bancari non è una novità, ma una piaga strutturale che si ripresenta puntualmente ogni volta che i margini finanziari si assottigliano e le direzioni generali decidono di trasformare ogni sportello in un bazar finanziario. A dieci anni dall’uscita di “Io so e ho le prove” e degli altri miei libri, dopo centinaia di articoli e analisi in cui ho denunciato le degenerazioni della malafinanza, la musica non è cambiata.
Oggi, con i tassi d’interesse in calo e i ricavi da fondi e polizze in contrazione, il copione si ripete: i dipendenti bancari tornano sotto pressione (ma non denunciano, perché vige un’omertà silenziosa, alimentata dalla paura e dall’abitudine), i clienti diventano prede (ma non reagiscono, accecati dall’ignoranza e dall’avidità), e i dirigenti manifestano apparente sorpresa, ma spesso orientano le proprie scelte alla salvaguardia di posizioni e convenienze personali.
Ultima pantomima in ordine di tempo: il “Decalogo contro le pressioni commerciali”, che la Fisac-Cgil, così come riportato da Il Sole 24 Ore del 12 luglio scorso, ha rilanciato nel recente caso di Intesa Sanpaolo, presentandolo come strumento di tutela dei lavoratori. Ma chi conosce davvero il settore sa bene che si tratta di una liturgia vuota, un esercizio di cosmesi sindacale che non scalfisce minimamente le dinamiche profonde di un sistema malato. [...]
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