Perché in molte zone del mondo il virus si è diffuso in maniera massiccia e in altre zone invece no? Un team di esperti ha identificato 4 fattori che provano a risolvere l’enigma.
Da quando è esplosa l’emergenza, l’unico dato certo finora è che il coronavirus si è diffuso in tutto il mondo. L’enigma irrisolto, però, è capire perché ciò non sia avvenuto con la stessa intensità. In grandi metropoli come New York, Parigi e Londra, per esempio, il virus ha avuto un enorme impatto, molto meno in città molto popolate come Bangkok, Baghdad e New Delhi.
Ma allora quali sono i fattori che determinano tali differenze?
Un team di esperti da tutto il mondo ha provato a identificare i 4 fattori attraverso i quali si può spiegare dove e perché il virus abbia prosperato maggiormente in certe zone e molto meno in altre: demografia, cultura, ambiente e rapidità della risposta delle autorità. E un quinto fattore meno ufficiale: la sfortuna.
1. La potenza della giovinezza
Dai dati emerge che i Paesi risparmiati da un’epidemia di massa sono costituiti perlopiù da popolazioni giovani. Robert Bollinger, docente di malattie infettive dell’università Johns Hopkins, ha infatti spiegato che i giovani colpiti da coronavirus si sono rivelati più asintomatici o con sintomi lievi, e che trasmettono meno facilmente il virus.
In Italia l’età media della popolazione è superiore ai 45 anni e l’età media delle vittime attorno agli 80 anni e risulta infatti uno dei Paesi più colpiti dalla pandemia. Esistono però delle eccezioni sulla teoria demografica. La popolazione del Giappone per esempio è la più anziana del mondo, ma lo Stato ha registrato meno di 520 decessi (il numero dei casi però è aumentato con l’aumento delle analisi dei campioni).
2. Questione culturale
Anche i fattori culturali incidono sulla diffusione del virus. La naturale tendenza di alcune società a mantenere le distanze potrebbe aver protetto alcuni Stati.
In Thailandia e in India, dove il numero di contagiati risulta relativamente basso, le persone si salutano senza contatti, giungendo i palmi delle mani come si fa in preghiera. Di contro, in molti paesi del Medio Oriente, come l’Iraq, gli uomini hanno l’abitudine di abbracciarsi e stringersi le mani, ma i contagi ufficializzati fino a ora risultano bassi.
Per alcuni Paesi il fattore che ha inciso favorevolmente contro l’attacco del coronavirus è anche il cosiddetto “distanziamento nazionale”. Stati remoti come il Pacifico del sud o l’Africa subsahariana non registrano molti casi di malati, forse perché non sono stati invasi da stranieri che lo hanno “importato” in maniera massiccia.
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3. Caldo e clima umido
Sembra che il coronavirus non ami il caldo. Dando un’occhiata alla geografia del contagio, notiamo infatti che il virus si è diffuso rapidamente durante l’inverno in Paesi dal clima mite come l’Italia e gli Stati Uniti, mentre è risultato quasi assente in paesi caldi come il Ciad o la Guyana.
Tuttavia secondo molti ricercatori il clima caldo non basta a contrastare la malattia. Nell’Amazzonia brasiliana infatti, dove il clima è tropicale, si sta registrando uno dei peggiori focolai dei paesi in via di sviluppo. “L’ipotesi più convincente è che il clima estivo contribuisca ma non sia sufficiente a rallentare l’aumento dei casi o a provocarne una riduzione”, ha spiegato Marc Lipsitch, direttore del Center for communicable disease dynamics dell’università di Harvard.
4. Lockdown tempestivo
Imporre misure restrittive e distanziamento sociale in maniera repentina è stato un elemento importante per evitare l’esplosione del contagio in tanti Paesi. Vietnam e Grecia per esempio hanno introdotto quasi subito le misure di isolamento sociale riuscendo a limitare la diffusione del virus.
Paesi come la Thailandia e la Giordania hanno registrato un crollo dei nuovi casi di positivi dopo la chiusura dei confini nazionali, delle scuole e di molte attività commerciali.
Anche l’OMS ha messo in luce quanto si siano rivelate efficaci le misure di isolamento, con il divieto imposto alle manifestazioni religiose e sportive. Eppure emerge un’eccezione significativa in Iran, che ha imposto la chiusura dei luoghi di culto il 18 marzo, ma ha visto in seguito l’epidemia allargarsi rapidamente, uccidendo migliaia di persone.
Il quinto elemento: il caso
Analizzando dati ed eccezioni, tutte le teorie esposte possono dirsi probabili ma non certe. Su questa disuguaglianza inoltre incide il fatto che molti Paesi non mettano a disposizione i dati reali del contagio da coronavirus, creando una forte sottostima del numero di positivi e morti.
Probabilmente alla base del fenomeno vi è una combinazione dei fattori sopra discussi, nella quale equazione però subentra un ultimo elemento: il puro caso, e anche la sfortuna.
Paesi con cultura e clima simili possono presentare situazioni opposte: è sufficiente infatti che un’unica persona positiva al coronavirus partecipi a un evento sociale molto affollato e inneschi una bomba di contagi, scatenando quello che i ricercatori definiscono un evento “super-diffusore”.
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