Piero Scandellari, Centergross: “Senza nuove leve, la vendita è un’opzione da valutare”

Sara Bracchetti

8 Settembre 2023 - 15:30

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Per il presidente di Centergross, per essere competitive le aziende italiane hanno la necessità di aumentare le loro dimensioni.

Piero Scandellari, Centergross: “Senza nuove leve, la vendita è un’opzione da valutare”

Il 20 settembre alle 15, nella sala convegni di Centergross in via degli Orefici, Zona Artigianale Funo Bologna, prenderà il via l’incontro dal titolo “Cambio generazionale, Strumenti e opportunità per le imprese del settore moda e tessile”.
L’evento - organizzato in collaborazione con Money.it - rappresenta un’occasione irrinunciabile per conoscere strumenti e opportunità per le aziende impegnate in questo delicato momento storico. I partecipanti avranno la possibilità di incontrare esperti del settore chiamati a condividere competenze ed esperienze sul tema del cambio generazionale.

Un appuntamento che vede protagonista la realtà di Centergross, la più grande area commerciale B2B europea della Moda Pronta italiana, della meccanica, logistica e servizi, con 700 aziende coinvolte per un giro d’affari annuo di circa 5 miliardi. Ecco che cosa ci ha raccontato il presidente, Piero Scandellari, in riferimento al tema del convegno.

Presidente, un evento sul “cambio generazionale”: qualcosa di cui si sente parlare da tanto, forse troppo tempo. Viene da pensare quasi che non esista davvero, che sia solo paura della realtà. Che cosa c’è di nuovo?
Il cambio generazionale è qualcosa che c’è sempre stato. Io stesso l’ho affrontato, nelle mie due aziende. Credo però che oggi vi sia una maggiore sensibilità rispetto a prima e questo lo spiego con il fatto che i tempi si muovono più velocemente. Probabilmente l’imprenditore di una certa età, pur più preparato di quanto non fosse in passato, si sente meno adeguato e ha la necessità di trovare nuove figure che possano raccogliere il suo testimone.

Chi sceglie: figli o manager?
Una volta si tendeva a guardare subito alla famiglia, ma non sempre i figli hanno la preparazione di base necessaria, magari perché scelgono di fare altro nella vita. Ecco dunque che in questi casi si guarda al manager.

Come viene accolto un “estraneo”, dalla famiglia?
In Italia c’è sempre stato un modo di dire, “piccolo è bello”, ma la globalizzazione ha cambiato tutto. “Piccolo è bello” è diventato un problema. Non voglio dire che sia la fine del “piccolo è bello”, ma certo non è più sufficiente. Servono competenze, persone preparate, i figli non sempre rappresentano una soluzione ottimale. In passato si sarebbe andati avanti comunque, oggi invece un passo falso può costare molto caro. C’è inoltre bisogno di crescere e ampliare.

È cambiata la mentalità, dunque? Ciò che è mio, deve restare al sangue del mio sangue?
No. La mentalità è sempre la stessa. Ma l’imprenditore ormai ha capito che se un tempo i figli potevano gestire in qualche modo l’azienda, in un mercato globale non sopravviverebbe.
Per questo, è necessario affiancare persone competenti o affidare del tutto la gestione a terzi. Bisogna trovare la forza di rivolgersi a qualcuno al di fuori della famiglia, se manca la persona giusta. È una cosa che certamente non amiamo fare, ma che a volte è necessaria.

Lei l’ha fatto?
Io mi considero fortunato. In un’azienda c’è mio figlio, che si è formato per vent’anni prima che io lasciassi. Nell’altra, mio figlio è supportato dai miei soci. Il percorso che ha portato al cambio generazionale è lungo: parliamo di quindici, vent’anni.

Vuol dire che bisogna giocare d’anticipo? L’esperienza insegna che è meglio prepararsi in tempi ancora non sospetti?
Senza dubbio è la prima cosa da fare. Non si può dare per scontato che, da un giorno all’altro, qualcuno arrivi e diriga. Serve la consapevolezza, in particolare, che un’azienda è un insieme di persone e di famiglie che meritano attenzione e rispetto, una comunità di esseri umani verso i quali bisogna avere sensibilità. Forse, l’idea di trovarsi in un’epoca in cui serve competenza, ci ha obbligati a cambiare

Finora ci siamo dedicati ai problemi. C’è anche l’altro lato della medaglia. L’evento parla di opportunità che offre il cambio generazionale: quali sono?
Quella di dare nuova vita a un’azienda. Di affidarla a persone più propense a fare cose verso cui magari l’imprenditore maturo sarebbe guardingo, come investire o correre dei rischi. L’opportunità di dare nuovo impulso a un corso. Se l’imprenditore ha una visione per la sua azienda, è questo che deve fare: partendo dieci anni prima, in un percorso lungo che porterà infine al cambio

Ma l’Italia è davvero capace? Non è un Paese “vecchio”, fatto di gente troppo attaccata a ciò che ha e diffidente nel giovane senza esperienza? Lei cosa pensa?
La penso come lei. Sono molto preoccupato. Con questa logica del piccolo è bello, si finisce inevitabilmente per essere comprati dagli altri, e sempre più spesso, da aziende o colossi stranieri. Siamo degli ottimi artigiani, siamo un’eccellenza, che però da sola fatica a stare sul mercato. Abbiamo paura di fare gruppo, di unirci, di trovare nell’unione la forza che ci serve. Fatichiamo ad accettare l’idea di diventare più grandi, magari attraverso una fusione con un concorrente che potrebbe diventare, invece, un ottimo partner.

Perché?
È qualcosa che non è nel nostro Dna. Abbiamo sempre vissuto in un mercato protetto: il concetto della grande industria non ci appartiene. Abbiamo ottime aziende, ma non la forza di crescere.
Da qui il cambio generazionale come problema tipicamente italiano, visto che è strettamente legato alle dimensioni aziendali. Non trova?
Sono d’accordo. Nel mondo, una percentuale di piccole aziende così alta ce l’ha soltanto il Giappone. Solo che il Giappone ha anche grandi aziende. Noi no. Ci salviamo con il turismo e l’artigianato, che il mondo ci invidia.

Dove sta la via d’uscita?
L’Italia andrà avanti comunque, ma con quale fatica, specie in certi settori! Uno dei problemi attualmente più gravi, che i nuovi manager si trovano e troveranno ad affrontare, è la carenza di personale. Non si trovano figure preparate. Pensiamo al manifatturiero e alla meccanica, per esempio. Il tema della ricerca di personale esiste da almeno dieci anni: la Germania ha reagito benissimo, ha fatto le mosse giuste. L’Italia no.

Parla solo di operai o è difficile anche trovare i manager?
Parlo di tecnici, che in una nazione manifatturiera, quale siamo noi, sono fondamentali. Le famiglie italiane, però, stentano ad accettare l’idea che i figli possano iscriversi a scuole considerate di serie B come, ad esempio, gli istituti professionali, rispetto a un liceo. Per questo motivo, a suo tempo, Prodi propose di cambiare nome a queste scuole, così da uniformarle e superare il problema psicologico. La cosa non andò in porto. Con una visione ampia, i manager invece si trovano.

Che altro?
Nel settore moda, per esempio, si fa molta anche a trovare commessi e commesse e addetti alle vendite. C’è chi dà la colpa al reddito di cittadinanza. Io non credo però sia solo questo.

Che cos’è?
Ci sono diversi motivi, tra cui lo stipendio. E bisogna cominciare a puntare sulla formazione. Tutte queste figure andrebbero formate e motivate.

Presidente, entriamo nel pratico. Devo lasciare l’azienda: come mi preparo? Quali strumenti ho a disposizione per affrontare il cambio?
La prima cosa è identificare la persona più predisposta, cercando in famiglia se c’è e se ha voglia, il resto viene di conseguenza. Quando si ha la persona giusta, allora è il momento di prepararla. Si controllano gli studi fatti, si predispongono eventuali corsi di formazione per compensare le lacune. Oggi è fondamentale avere conoscenze di base su tutto. Posso aver identificato una persona creativa come mio successore ideale, ma non è pensabile che riesca a lavorare senza avere le conoscenze basilari per stare nel mondo imprenditoriale. Oggi bisogna saper parlare tutti i linguaggi

A volte però si commette l’errore di cercare, e pretendere di trovare, persone già formate su tutto. Che, non a caso, alla fine non si trovano. Per lei invece è diverso: sta all’imprenditore plasmare la sua gente?
Sì. Anche perché il più delle volte si trovano persone per conoscenza e passaparola. È normale che non abbiano ancora tutto ciò che si vorrebbe.

E quando non si trovano?
Allora è il momento di affidarsi a società specializzate nella ricerca e selezione di manager e dirigenti, i cosiddetti “cacciatori di teste”. Queste società hanno un costo, ma garantiscono il risultato, il che è fondamentale vista la posizione delicata che si deve andare a occupare. Il piccolo imprenditore talora non lo capisce, si chiede perché debba pagare per trovare qualcuno. Proprio per questo. Se fai da solo e sbagli, i costi sono dieci volte più ampi. Per quanto riguarda ruoli medio-alti, se non addirittura al top, utilizzare queste società è imprescindibile.

Come si fa a capire che è la persona giusta?
L’imprenditore lo sente. Avverte la voglia. Capisce subito se il suo successore è in famiglia o no. A volte vuole provare lo stesso con i figli. Prova a dirsi che la voglia prima o poi verrà. È qualcosa che abbiamo visto spesso in passato e spesso è stato un fallimento. La differenza è che oggi lo sarebbe di sicuro. Un tempo ci si poteva magari concedere il lusso di sbagliare. Oggi non più: i margini sono diversi e molto più sottili

Presidente, finora abbiamo parlato di ricambio. Quando, invece, è il caso di contemplare la vendita?
Raggiunta una certa età, se non si è individuato un successore, è doveroso. Se non si vede più nel futuro, se le forze vengono meno, è qualcosa che dovrebbe essere automatico. Anche la vendita, però, richiede tempo e preparazione.

Non c’è un senso di vergogna nel cedere la propria creatura?
Di sicuro è un percorso faticoso, ma anche gestire un’azienda lo è. Magari l’entusiasmo c’è ancora, ma l’energia no. Dunque, a un certo punto lo si fa, per forza. Ci sarebbe in verità un’altra grande opportunità, cui accennavo in precedenza. Unirsi a un altro imprenditore e creare una nuova realtà, tenendo magari una quota azionaria e continuando a lavorare fino a che si vuole. Non è nel nostro Dna, purtroppo, non in noi italiani.

Perché “purtroppo”: ce lo spiega?
Perché è un’opportunità che si dovrebbe cogliere. Abbiamo la necessità di aumentare la dimensione delle nostre aziende. Come le banche, che si uniscono per essere più forti: anche qui, abbiamo bisogno di una dimensione aziendale maggiore.

Lei è più ottimista o più pessimista: cosa vede nel futuro dell’Italia?
Ottimista, perché non c’è nessun Paese al mondo con le meraviglie che abbiamo noi. Siamo un popolo di creativi, primo per turismo e artigianato, capace di cavarsela sempre. Ma, ripeto, dobbiamo crescere o altri ne approfitteranno e ci compreranno, come purtroppo è già successo e continua a succedere. Prevedo che la manifattura perderà molto e i più bravi saranno acquistati dagli stranieri.

Lo Stato deve avere un ruolo nel sostenere le imprese o il rischio d’impresa, alla fine, è solo dell’imprenditore?
Il Made in Italy va difeso a ogni costo. Nella moda siamo i numeri uno al mondo. Nella meccanica siamo secondi solo alla Germania. Ci tengo però a fare una precisazione: dobbiamo tutelare solo quello che viene fatto in Italia: se un’azienda va a produrre in altri Paesi, il discorso cambia. Bisogna lottare per ciò che è giusto. Allo Stato, dunque, il compito di difendere il vero Made in Italy. E, soprattutto, fare formazione, in tutti i settori strategici per il nostro Paese.

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