È vero che in Italia si rischia il carcere per l’utero in affitto? Cosa succede se la pratica viene fatta all’estero? Quali sono i rischi?
Il compianto Papa Francesco definì la maternità surrogata una «pratica disumana», invocando un divieto universale, in quanto espressione di una cultura che «usa il corpo della donna e del bambino come merce» (discorso al Corpo Diplomatico, 8 gennaio 2024). Parole nette che trovano supporto nel nostro quadro legislativo.
Secondo la legge la maternità surrogata è vietata, anche a titolo gratuito, e le sanzioni previste in Italia sono tra le più severe d’Europa. Tuttavia, l’aumento dei casi di bambini nati tramite gestazione per altri all’estero e le pressioni giurisprudenziali sul riconoscimento dei legami familiari hanno riaperto la discussione. Vediamo i dettagli.
Cos’è l’utero in affitto?
Con l’espressione «utero in affitto» si intende il fenomeno della gestazione per altri (GPA), una pratica attraverso cui una donna si impegna a portare a termine una gravidanza per conto di una o più persone che intendono diventare genitori del nascituro.
La gestante, al termine della gravidanza, si obbliga a rinunciare ad ogni diritto sul bambino, consentendo il riconoscimento della genitorialità in capo ai soggetti committenti. L’utero in affitto può realizzarsi: mediante inseminazione artificiale, oppure, attraverso il trasferimento di embrioni creati in vitro da uno o entrambi i committenti.
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Perché in Italia l’utero in affitto è vietato
In Italia, l’utero in affitto è vietato, in quanto considerato una pratica che lede la dignità della donna, riducendola a mero strumento riproduttivo. Anche se svolta a titolo gratuito, è vista come una forma di mercificazione del corpo femminile. In particolare, la Corte costituzionale ha definito tale pratica:
«lesiva della dignità della donna e profondamente contraria all’ordine pubblico» (Corte Cost.sent. n. 272/2017)
Inoltre, l’art. 21 della Convenzione di Oviedo (Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina, ratificata in Italia con l. n. 145/2001) stabilisce che:
«il corpo umano e le sue parti non devono essere, in quanto tali, fonte di profitto.»
Questo divieto si applica non solo agli organi e ai tessuti, ma più in generale a qualsiasi utilizzo del corpo umano in ambito biomedico.
La normativa italiana che vieta espressamente il ricorso all’utero in affitto si trova nella l. n. 40/2004, all’art. 12, co. 6 dispone:
«il divieto assoluto di surrogazione di maternità, sanzionando penalmente sia chi realizza materialmente la pratica, sia chi ne cura l’organizzazione o la promozione.»
La norma configura un’ipotesi di reato comune, perseguibile nei confronti di chiunque, senza distinzione di cittadinanza o di residenza, purché la condotta si realizzi anche solo parzialmente in Italia.
Cosa rischia chi ricorre all’utero in affitto: sanzioni e conseguenze
La pena prevede la reclusione da 3 mesi a 2 anni e una multa da 600.000 a un milione di euro, configurando così una delle sanzioni pecuniarie più elevate previste dal nostro ordinamento. La formulazione ampia della norma coinvolge:
- i genitori intenzionali che commissionano la gestazione: i quali, possono essere accusati del reato di surrogazione di maternità previsto dall’art. 12, co. 6, l. n. 40/2004, in quanto promotori o finanziatori della pratica;
- la madre surrogata: può essere punita per aver consapevolmente partecipato alla realizzazione dell’accordo. Inoltre, se percepisce un corrispettivo economico, si può configurare anche il reato di commercio illecito di organi o tessuti art. 23 d.lgs. n. 16/2010;
- eventuali intermediari o agenzie che promuovono o organizzano la pratica: possono essere perseguiti per organizzazione e promozione della pratica e pubblicità illecita di servizi vietati in Italia, anche online (eventualmente integrando art. 515 c.p. – frode nell’esercizio del commercio).
Oltre alle sanzioni penali, esistono anche conseguenze civili. Il contratto di surrogazione di maternità è considerato nullo ai sensi dell’art. 1418 c.c. in quanto contrario a norme imperative e all’ordine pubblico. Ne deriva che non può produrre effetti giuridici, né a favore dei genitori intenzionali né a favore della madre surrogata.
Differenze tra utero in affitto e adozione
La pratica dell’utero in affitto e l’adozione rappresentano due istituti radicalmente diversi sia sul piano giuridico sia su quello etico, benché entrambi riguardino la formazione di un legame di filiazione.
«L’adozione è disciplinata dalla l. 4 maggio 1983, n. 184, e consiste nell’inserimento stabile di un minore privo di un ambiente familiare adeguato all’interno di una nuova famiglia.»
Essa avviene attraverso un provvedimento dell’autorità giudiziaria, che verifica rigorosamente la sussistenza dei requisiti legali e l’interesse superiore del minore. L’utero in affitto, al contrario, implica un accordo privato con una donna disposta a portare avanti una gravidanza per conto di altri soggetti. Una differenza centrale riguarda, quindi, il fondamento giuridico del legame:
- nell’adozione, il legame genitoriale è stabilito a tutela del minore, attraverso un atto dell’autorità giudiziaria;
- nell’utero in affitto, il legame è frutto di un accordo contrattuale privato, privo di validità legale in Italia.
In alcuni casi l’adozione viene utilizzata in modo illecito, ovvero: non come misura di tutela del minore, ma come strumento per aggirare il divieto della surrogazione di maternità. Occultare l’effettiva origine della filiazione può dar luogo a:
- dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria art. 495 c.p.;
- falsità ideologica in atti pubblici art. 483 c.p.;
- decadenza dalla responsabilità genitoriale art. 330 c.p..
Utero in affitto all’estero: in quali Paesi è legale?
Tra i Paesi che la consentono, vi sono quelli che permettono ai genitori intenzionali di essere riconosciuti direttamente come genitori legali alla nascita del bambino, senza dover ricorrere a un procedimento di adozione successiva. Si tratta di una differenza sostanziale dal punto di vista giuridico e delle tutele familiari.
Negli Stati Uniti, in Stati come California, Nevada e Illinois, è possibile ottenere un ordine pre-natale o post-natale che consente di iscrivere subito i genitori intenzionali nell’atto di nascita. La procedura si basa su contratti formalizzati e convalidati da un giudice, all’interno di un quadro normativo che tutela sia la gestante sia i committenti.
In Ucraina e Georgia, la surrogazione è ammessa anche in forma commerciale. Le normative nazionali prevedono che, alla nascita, il certificato indichi direttamente i nomi dei genitori intenzionali, escludendo ogni legame giuridico con la gestante. Tuttavia, l’accesso a questo tipo di percorso è limitato alle coppie eterosessuali.
Italia e utero in affitto all’estero: quali sono i problemi legali al rientro
Nel nostro Paese, il riconoscimento automatico degli atti di nascita stranieri formati in seguito a pratiche di maternità surrogata non è consentito, poiché ritenuto contrario all’ordine pubblico interno, ai sensi dell’art. 18 d.P.R. n. 396/2000 e degli artt. 64 e 65 della l. n. 218/1995. Dal punto di vista pratico, i problemi principali che si pongono sono:
- la trascrizione dell’atto di nascita: non essendo automatico, ne consegue che la gestante è considerata la madre legale ai sensi dell’art. 269, co. 3, c.c., a prescindere dall’accordo contrattuale con i genitori intenzionali;
- attribuzione della cittadinanza: il minore nato all’estero non acquisisce automaticamente la cittadinanza italiana.
Che succede quando due Stati non riconoscono né i genitori intenzionali né la gestante?
Uno dei problemi più gravi e meno discussi legati alla maternità surrogata internazionale è il rischio concreto di apolidia del minore, cioè la situazione in cui un bambino non viene riconosciuto come cittadino da nessuno Stato. Ciò può accadere quando né il Paese in cui è nato, né quello di cittadinanza dei genitori intenzionali riconosce il legame di filiazione o la validità dell’accordo di surrogazione.
Il caso tipico riguarda situazioni in cui:
- il Paese di nascita consente la maternità surrogata, ma non attribuisce automaticamente la cittadinanza al nato, perché fondata su ius sanguinis (es. Georgia, Ucraina);
- lo Stato di origine dei genitori intenzionali, come l’Italia, non riconosce né la validità del contratto, né la filiazione nei confronti dei committenti, e considera nulla la surrogazione, anche se effettuata all’estero.
Se anche la gestante non viene riconosciuta come madre legale (come previsto in alcuni ordinamenti dove la sua firma sul contratto comporta la rinuncia legale alla maternità), il bambino rimane privo di riferimenti giuridici genitoriali e, potenzialmente, di cittadinanza.
Con riferimento al diritto internazionale, l’apolidia costituisce una violazione grave dei diritti fondamentali del minore. Per ovviare a queste situazioni, alcuni Stati adottano soluzioni temporanee, come il rilascio di documenti provvisori o l’attivazione di procedure di adozione in casi particolari. Tuttavia, il vuoto normativo e il conflitto tra ordinamenti restano fonti di incertezza giuridica e vulnerabilità per il bambino.
Prospettive future: si può prevedere una modifica della normativa italiana?
Con l’entrata in vigore della l. n. 169 del 2024, la disciplina italiana sulla maternità surrogata ha subito una modifica rilevante. È stato infatti aggiunto un inciso all’art. 12, co. 6, l. n. 40/2004, che estende la punibilità della surrogazione di maternità anche quando commessa all’estero da cittadini italiani. Il nuovo testo stabilisce che:
«Se i fatti di cui al periodo precedente, con riferimento alla surrogazione di maternità, sono commessi all’estero, il cittadino italiano è punito secondo la legge italiana».
Questa modifica legislativa, in vigore dal 3 dicembre 2024, ha rafforzato il divieto già previsto dalla legge, introducendo una forma di reato “universale” che mira a contrastare il cosiddetto “turismo procreativo”, cioè il ricorso alla GPA in Paesi dove è consentita.
Nonostante questo irrigidimento normativo, il dibattito sul tema resta aperto. La Corte costituzionale ha evidenziato la necessità di una disciplina più organica, in particolare per la tutela giuridica dei minori nati all’estero tramite GPA, sollecitando il legislatore a intervenire, pur senza mettere in discussione la legittimità del divieto (Corte Cost. Sent. nn. 33/2021).
A livello europeo, non esiste ancora una normativa unitaria. Il Parlamento europeo ha espresso posizioni critiche nei confronti della surrogazione commerciale, ma non ha ancora elaborato strumenti normativi vincolanti.
La Corte EDU, invece, in alcune pronunce ha sottolineato l’importanza di salvaguardare la vita familiare dei minori già nati, anche in presenza di divieti nazionali (es. caso Mennesson c. Francia, 2014).
In prospettiva, dunque, non si può escludere un ulteriore sviluppo legislativo, ma la tendenza attuale del legislatore italiano è quella di consolidare il divieto, ampliando l’ambito di applicazione penale e confermando l’impostazione restrittiva adottata sin dall’entrata in vigore della l. n. 40/2004.
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