Il Rapporto sui diritti globali promosso da CGIL, in collaborazione con ActionAid, Antigone, Arci, Cnca, Comisiones Obreras Catalogna, Fondazione Basso-Sezione Internazionale, Forum Ambientalista, Gruppo Abele, Legambiente, Sbilanciamoci!, fotografa una realtà drammatica: sono 3,3 milioni i precari italiani.
Sharan Burrow, segretario dell’International Trade Union Confederation, ha collaborato alla prefazione del Rapporto illustrando in maniera molto efficace la situazione:
“Siamo davanti a una storica e finale resa dei conti con il modello sociale che ha contraddistinto a lungo l’Europa, garantendo i diritti del lavoro e delle fasce più deboli della popolazione. Dietro lo schermo delle ragioni economiche e di bilancio si afferma una visione del mondo e delle relazioni sociali e umane diversa da quella che abbiamo conosciuto e che è stata conquistata dalle lotte e dai sacrifici dei lavoratori, dei sindacati, delle forze sociali lungo tutto il secolo scorso”.
Precari italiani: ecco l’identikit
Chi sono i precari italiani? Ecco il quadro che emerge dal Rapporto:
- guadagnano mediamente € 836 netti al mese (€ 927 mensili per gli uomini e € 759 per le donne);
- lavorano soprattutto al Sud (35,18%). Le regioni più coinvolte sono: Calabria (21,2%), Sardegna (20,4%), Sicilia (19,9%) e Puglia (19,8%);
- pochi sono laureati (15%), mentre il 46% hanno un diploma e il 39% solo la terza media;
- lavorano soprattutto nella P.A. (34%). Nel dettaglio: scuola e nella sanità occupano 514.814 precari, i servizi pubblici e sociali 477.299, le P.A., come Stato, Regioni e Enti locali, 119.000.
In generale si tratta di:
- dipendenti a termine involontari;
- dipendenti part time involontari;
- collaboratori che presentano tre vincoli di subordinazione (monocommittenza, utilizzo dei mezzi dell’azienda e imposizione dell’orario di lavoro);
- liberi professionisti e lavoratori in proprio con partita IVA.
Le cause
Quali possono essere le cause che hanno condotto a questo dramma sociale?
- deregolazione del mercato del lavoro;
- scarsi investimenti in innovazione;
- riduzione dei finanziamenti alla scuola;
- austerità e “politiche di obbedienza” al fiscal compact, che potrebbero causare un taglio della spesa pubblica pari a 40-50 miliardi per il prossimo ventennio.
Cosa genera tutto ciò?
- diseguaglianze economiche;
- erosione dei diritti conquistati nel secolo scorso, come ha illustrato Sharan Burrow.
Colpa dell’austerity?
Far quadrare i conti o emergenza sociale? Questo è ciò che pesa sul piatto della bilancia. E l’austerity non può non essere esente da critiche.
Joseph Stiglitz, Nobel per l’economia ed ex vicepresidente della Banca Mondiale, ha sentenziato:
“L’austerità è una condanna a morte per i più poveri”.
E Paul Krugman ha aggiunto:
“Il programma dell’austerity rispecchia da vicino la posizione dei ceti abbienti, ammantata di rigore accademico. Ciò che il più ricco un per cento della popolazione desidera diventa ciò che la scienza economica ci dice che dobbiamo fare”.
L’ILO ha spiegato come i Paesi che non hanno seguito la via dell’austerity come USA, Uruguay, Brasile e Indonesia stanno meglio dell’Europa dove “oltre alla disoccupazione, cresce la precarietà, quella che sino a poco tempo fa si era usi edulcorare chiamandola flessibilità”.
Cosa fare?
Nel Rapporto emergono testimonianze, analisi e proposte di azione:
- ritrovare l’equilibrio tra economia, società e politica;
- affiancare la crescita quantitativa al miglioramento della qualità e del benessere, puntando sulla sostenibilità sociale e ambientale;
- sviluppare nuove attività ad alta intensità di conoscenza, apprendimento, valore aggiunto, occupazione stabile, alti salari;
- avviare un riorientamento attraverso un processo di ampia partecipazione democratica, sia all’interno dei processi politici, sia nell’azione della società civile nelle sue varie articolazioni.
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