Mercati emergenti: c’è ancora spazio per investire?

Roberto Donzelli

19 Febbraio 2022 - 18:00

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I mercati emergenti hanno reso storicamente di più di quelli sviluppati. Negli ultimi anni, però, questo maggior rendimento è venuto meno.

Mercati emergenti: c’è ancora spazio per investire?

Storicamente i mercati emergenti hanno reso di più rispetto a quelli sviluppati. L’indice MSCI Emerging Markets dal 2000 a oggi ha reso l’8,83% annuo composto, contro il 6,41% dell’indice MSCI World.

Negli ultimi anni, però, questo trend è cambiato radicalmente. Se consideriamo gli ultimi 10 anni, un arco temporale di certo non breve, i numeri sono ben diversi. Per l’esattezza abbiamo: +4,16% annuo composto per gli emergenti contro oltre il +10% dei mercati sviluppati.

Questo non è solo un cambiamento nell’interesse degli investitori. Ci sono anche dei motivi fondamentali che spiegano questa differenza, tanto da far pensare che forse non è più così conveniente investire troppo su questa classe di investimento.

I motivi dietro la spinta dei mercati emergenti

Storicamente sono due i motivi per cui i mercati emergenti su un orizzonte di 20 e più anni hanno reso di più dei «developed».
Questi due motivi sono:

  • crescita economica più elevata;
  • maggior rischio;

Relativamente al primo punto, è chiaro che una crescita più sostenuta favorisca maggiormente la crescita dei profitti delle imprese e, quindi, anche dei valori azionari.

Il maggior rischio, poi, richiede di essere remunerato di più, altrimenti i capitali non affluiscono. Le valutazioni, quindi, tengono conto di questa maggiore volatilità.

Se questi sono stati i due driver dell’overperformance degli emergenti, ora la situazione relativamente al punto uno è un po’ cambiata.

Gli emergenti crescono, ma forse non più così tanto

Per tutto il periodo 2000-2009, le economie sviluppate hanno registrato una crescita media del Pil intorno al 2%. Per contro, le economie emergenti sono cresciute a un ritmo medio del 5-6%, con punte persino dell’8% l’anno. Il differenziale di crescita ha oscillato intorno al 4%, con punte del 5-6%. Stando così le cose, è chiaro che queste economie hanno suscitato l’interesse degli investitori e attratto i loro capitali.

Dopo il 2009, però, la situazione è cambiata. Gli emergenti continuano ancora a crescere di più (ci mancherebbe altro), ma il differenziale si è progressivamente ridotto e nell’ultimo decennio si è attestato intorno ai 2 punti.

Mentre le economie avanzate hanno mantenuto una crescita in linea o persino lievemente sopra il decennio precedente, gli emergenti hanno sperimentato tassi di crescita più contenuti e vicini al 4%.

La pandemia e ciò che ne è conseguito hanno persino accelerato la riduzione di questo gap, tanto che le previsioni del 2022 vedono il differenziale solo leggermente sopra il punto percentuale.

Se il differenziale di crescita sparisce, cosa resta agli emergenti? Solo la maggiore volatilità. E non è detto che questa sia sufficiente a generare un’extra-performance. Negli ultimi anni, infatti, non è stato così.

Perché gli emergenti crescono meno?

Ma come mai la crescita degli emergenti è scesa?

I motivi sono diversi. Non ultimo, il fatto che i livelli di partenza non sono più quelli degli anni ’90 o dei 2000. Con i livelli economici raggiunti, è sempre più difficile registrare crescite del 6-8% l’anno.

Poi ci sono diversi elementi contingenti: la forte crescita dei 20-30 anni precedenti è stata aiutata notevolmente dai flussi di capitale dai Paesi ricchi. Ora che questi flussi sono più ridotti, questo driver è diventato meno influente.

Il commercio internazionale a causa della pandemia si è ridotto e questo ha fatto venire meno importanti mercati di sbocco per diversi Paesi emergenti «export-oriented».

Un altro elemento di preoccupazione è la forza del dollaro. Molte economie emergenti hanno debiti denominati in dollari o, comunque, soffrono di deflussi di capitale quando il dollaro si rafforza e i tassi americani salgono. Le Banche Centrali dei Paesi Emergenti devono alzare i tassi per evitare crisi valutarie e finanziarie, ma questo impatta sui consumi interni, i costi dei finanziamenti e i profitti delle imprese.

Anche la spirale inflazionistica non aiuta molte di queste economie, che non riescono a tenere facilmente i prezzi sotto controllo e non hanno nemmeno molte leve per farlo.

È il momento di abbandonare i mercati emergenti?

Ovviamente non tutto è negativo. I Paesi esportatori di commodity, ad esempio, stanno avendo molti benefici. In generale, diversi Paesi Emergenti hanno saldi attivi di partite correnti e ampie riserve in valuta estera.

Molti Paesi hanno anche già alzato i tassi da tempo e quindi sono meno vulnerabili nei confronti di un rialzo dei tassi della Fed.

Quindi no, non è il caso di abbandonare del tutto i mercati emergenti, anche perché le valutazioni sono oggi più basse rispetto ai mercati sviluppati.

Non c’è dubbio, però, che oltre 10 anni di performance relativa negativa lasciano il segno. Quindi non è nemmeno il caso di eccedere con l’esposizione.

Come al solito, la giusta via sta nel mezzo. I Paesi Emergenti devono trovare spazio in una distribuzione dei fondi disponibili, ma senza eccedere e senza prendere il posto dei mercati maturi come asset azionario principale.

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