Startup, giovani creativi, venture capital e rischio d’impresa: a che punto è l’innovazione in Italia e quali sono le strade ancora da battere?
Dopo aver partecipato allo sviluppo di startup internazionali, operando in Europa, America e Asia, attualmente Augusto Coppola dirige il programma di accelerazione di Luiss Enlabs e, come imprenditore e manager, lavora anche in BAIA Italia, in qualità di co-chair, e in diverse altre startup innovative, in qualità di advisor e board member. Augusto Coppola è anche consulente di fondi di investimento privato, consulente e speaker sui temi dell’innovazione e del rapporto tra start-up e Venture Capital, temi sui quali è anche docente di master e corsi e anche tra gli autori di CheFuturo!, il lunario dell’Innovazione del Sole24Ore. Insieme a Paolo Merialdo e Carlo Alberto Pratesi è uno degli ideatori di InnovAction Lab, di cui è presidente.
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Qual è lo stato di salute dell’innovazione in Italia?
L’innovazione in Italia è come un convalescente. Si tratta di un settore che è stato per molti anni assente nel nostro Paese, a causa di condizioni di natura economica e finanziaria che hanno favorito i grandi gruppi industriali e hanno, quindi, contribuito a determinare un business chiuso, sebbene in una nazione molto ricca. In questo modo si sono create, in molti settori produttivi delle situazioni di oligopolio, situazioni in cui non c’era competitività e, quindi, scarsa propensione al rischio che è connaturato all’innovazione. Negli ultimi anni ci sono stati dei cambiamenti importanti in questo scenario, perciò per l’innovazione è iniziato un cammino che promette molto bene, anche se i passi più importanti sono ancora da compiere.
Dando uno sguardo alle sue precedenti esperienze, si ha l’impressione che per innovare si debba ricorre al privato o all’estero, o a entrambi. L’innovazione è considerata un settore strategico dalla politica?
A parole sono tutti d’accordo nel considerare l’innovazione un settore strategico ma i fatti raccontano una storia un po’ diversa. La politica italiana si è evoluta in un meccanismo relazionale, quello dei grandi gruppi industriali di cui dicevamo, e ciò comporta, all’atto pratico, delle grandi resistenze verso chi decide di innovare perché l’innovazione implica anche dei cambiamenti nelle posizioni di comando, nelle persone stesse che spesso sono impaurite dalla possibilità di perdere i loro privilegi. Più in generale manca una visione prospettica che permetta di intravedere quali saranno i settori e gli investimenti più promettenti nell’immediato futuro e ciò fa sì che i dirigenti, nella gran parte dei casi, evitino di fare scelte arrischiate.
Che cosa potrebbe fare, concretamente, la politica per favorire l’innovazione e per rendere l’innovazione uno dei motori della ripresa economica?
La politica in realtà dovrebbe intervenire il meno possibile o, meglio, piuttosto che dare finanziamenti alle aziende, la politica dovrebbe mettere le aziende nelle condizioni giuste per diventare realmente competitive e per innovare più facilmente. Ciò significa aumentare gli sgravi fiscali e diminuire la tassazione e semplificare le procedure, abbattendo dei vincoli burocratici che sono ancora molto impegnativi da superare. Ad esempio: alcuni mesi fa mi sono trovato di fronte a una startup che si occupava di intermediazione del lavoro e ho riscontrato delle difficoltà nell’allestimento di un ufficio che doveva rispettare molti vincoli, pur essendo utilizzato, all’atto pratico solo per lavorare davanti al computer.
Chi si occupa di innovazione e startup ritiene la ripresa economica un’espressione dotata di senso, nel momento attuale, oppure una fase ancora molto lontana nel tempo?
L’Italia sembra essere andata così in basso negli scorsi anni che riprendere a crescere non sembra un’impresa così impossibile, laddove ci sia la volontà di farlo. Purtroppo però quel che manca in Italia è proprio questa volontà di cambiamento perché si applicano ricette del passato e non si prende atto che il mondo è cambiato. Quel che non si capisce è, ad esempio, che le aziende con più di dieci anni di vita continuano a perdere dipendenti e che, se non si incentivano nuove forme di imprenditorialità, le aziende tradizionali staranno sempre peggio e la ripresa economica sarà sempre più lontana.
Dal punto di vista imprenditoriale quali sono, invece, le pastoie in cui si corre il rischio di rimanere impigliati quando decide di di intraprendere la strada dell’innovazione? E quali, invece, i punti di forza del nostro Paese?
Le difficoltà maggiori per chi decide di avviare una nuova attività sono legate a dei costi iniziali troppo alti. Questo problema ha delle cause che richiamano la mentalità imprenditoriale obsoleta di cui abbiamo appena detto, dal momento che, nella maggior parte dei casi, gli investimenti ad alto rischio sono snobbati da chi è nella posizione di muovere dei capitali.
Tra i punti di forza dell’Italia segnalerei senza dubbio un dato che Luca Ricolfi, giornalista de La Stampa, ha fatto ben comprendere in una sua ricerca ovvero che gli stipendi sono bassi, non mi riferisco solo ai salari netti ma anche al costo industriale. Un altro dato incoraggiante è la lealtà del lavoratore : se un italiano viene messo nelle condizioni giuste, con uno stipendio dignitoso, difficilmente abbandona la propria azienda e ciò implica una presenza di capitale umano molto apprezzabile nell’azienda stessa, a differenza di Paesi come l’India, ad esempio, dove un lavoratore cambia azienda ogni sei mesi. Nonostante tutto poi, l’Italia rimane comunque la diciottesima economia al mondo, un posto di tutto rispetto anche se si posiziona dietro a quasi tutte le grandi potenze economiche.
Correre il rischio di realizzare le proprie idee, alla fine paga?
Paga se si è preparati. Rischiare non è bello di per sé e ha un suo valore se si hanno grandi conoscenze tecniche e/o se si hanno spiccate doti manageriali e/o se si conosce a fondo il mercato di riferimento. Al di là di questo, correre il rischio di una nuova impresa imprenditoriale, è un’avventura che permette di realizzarsi umanamente e anche nel caso in cui non si ottengano guadagni o ritorni, il know how acquisito consente di ricollocarsi più facilmente sul mercato.
La preparazione pregressa rimane comunque un aspetto fondamentale, soprattutto in un momento in cui troppe persone decidono di rischiare con troppa leggerezza.
In molti quotidiani sono sempre più numerose le storie di giovani italiani che portano le loro idee all’estero e riescono ad avere altrove quel successo che in Italia potevano solo sognare. È davvero così?
Non proprio. Esempi come quelli di Jobrapido e di Buongiorno ci dimostrano che è possibile creare anche in Italia realtà produttive virtuose, nate da idee innovative e che, soprattutto, sono state in grado di creare ricchezza per sé stesse, per i propri dipendenti e per l’Italia. Certo nel nostro Paese rimane un’impresa più difficile rispetto ad altre nazioni che hanno un’economia più vivace e una legislazione più facile. Quel manca maggiormente in Italia è una visione imprenditoriale che metta le persone nelle condizioni di trasformare buone idee in realtà economiche di successo.
Il nostro sistema formativo è adeguato a sostenere l’innovazione e la creatività dei suoi studenti?
L’università italiana ha dei GAP culturali relativi alla nuova imprenditoria. Per un docente universitario lo studente di successo può avere un futuro all’interno dell’università, perseguendo la strada della ricerca mentre quelli meno brillanti possono ambire a un posto all’interno di grandi aziende. Anche se gli studenti hanno nozioni tecniche anche apprezzabili, nessuno insegna loro a valutare il successo che si potrebbe avere con la creazione di una nuova azienda quindi, alla fine del percorso universitario non si acquisisce una mentalità imprenditoriale.
Un altro problema da non sottovalutare nell’università italiana è che la qualità media degli studenti negli ultimi anni è diminuita e anche nel caso dei corsi di laurea a numero chiuso, dove è presente una selezione a monte, nel seguito del percorso non avviene una selezione ulteriore che individua gli studenti più validi.
Può spiegarci brevemente che cos’è il progetto InnovAction Lab e quali sono i prossimi appuntamenti in calendario?
InnovAction Lab è una associazione no profit che, attraverso un’esperienza pratica, permette agli studenti universitari di capire se un’idea innovativa ha un potenziale di successo e di presentare questo progetto a degli investitori privati. Il percorso che viene proposto è di carattere esperienziale: viene richiesto agli studenti di costruire l’infrastruttura di un’azienda in tre mesi. Alla fine di questo periodo anche se ci saranno stati degli errori i giovani che hanno partecipato avranno comunque imparato a costruire un’azienda perché, durante il percorso formativo è stato richiesto loro di partire dalla propria idea, di costruire il team adatto a svilupparla e, soprattutto, di risolvere autonomamente i problemi che si pongono strada facendo. Ed è proprio questo il gradiente che permette di imparare: l’imprenditoria e l’autoimprenditorialità non si possono insegnare ma mettere dei ragazzi di fronte ai problemi tipici di chi fonda una startup può stimolare in loro questa capacità.
In questa avventura che si struttura come un concorso, i giovani hanno la possibilità di avvicinarsi concretamente al mondo delle imprese perché i progetti devono anche essere presentati a dei potenziali investitori.
InnovAction Lab è considerato uno dei 5 casi di maggior successo mondiale nel campo della formazione imprenditoriale. Nel corso dei suoi 3 anni di attività InnovAction Lab ha dato vita ad oltre 30 startup finanziate da fondi di investimento di venture capital. Agli eventi finali che hanno concluso il laboratorio hanno partecipato 500 ragazzi nel 2011 mentre lo scorso anno sono stati 1000 i partecipanti alla giornata di chiusura, con circa 100 investitori privati. Un risultato che sarà presto replicato nella Finale Nazionale 2014 che si terrà a Roma, il prossimo 23 Giugno.
Che consigli darebbe, da imprenditore e da manager, a una persona che decide di avviare una startup?
Prima di tutto studiare molto, ovvero arrivare sul mercato preparati e, poi, non essere presuntuosi, non essere arroganti perché la prima causa di fallimento di una startup è la scarsa cura del cliente di cui non si considerano adeguatamente le richieste e bisogni, essendo spesso troppo presi da sé stessi e dal proprio lavoro.
La seconda causa del fallimento di un’azienda è, invece, un team sbagliato. Per questo occorre studiare molto anche per capire che cos’è una startup e come funziona. Occorre, infine, avere la capacità di imporsi una grande disciplina che consenta di fare le azioni giuste nei tempi congrui, dal momento che la passione da sola non basta ma deve essere adeguatamente controbilanciata da un’opportuna programmazione.
Grazie per la collaborazione.
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