La riforma costituzionale: un voto politico?

Alessandro Megaro

10/11/2016

11/11/2016 - 11:10

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I tratti essenziali della riforma costituzionale, a prescindere dall’esercizio di un voto politico sulla permanenza o meno dell’esecutivo.

La riforma costituzionale: un voto politico?

La Riforma costituzionale che ci apprestiamo a valutare in sede referendaria nasconde una miriade di punti di vista, politici e costituzionali, ma anche una moltitudine di strumentalizzazioni che non rendono merito a chi consapevolmente – da ribadire, davvero consapevolmente – ha intenzione di esprimere il proprio voto sia esso positivo che negativo.

La necessità di una Riforma costituzionale ha attraversato l’intera storia repubblicana e, a torto o a ragione, ha alimentato diversi tentativi di modifica degli assetti costituzionali mai andati a buon fine. Da un lato c’è sempre stato chi ha ritenuto intoccabile e perfetta la costituzione così com’è, vuoi per ragioni politiche e di propaganda, vuoi per un reale sostegno ad un bicameralismo che, dopo venti anni di esperienza fascista, ha avuto il compito di garantire stabilità democratica (non politica), con l’obiettivo di scongiurare nuove derive autoritarie. 

Dall’altro lato della barricata si sono appostati, invece, coloro i quali hanno sempre voluto, anche in questo caso sia per ragioni politiche e strumentali alle contingenze, sia per motivazioni più ragionevoli e sane, una sistemazione di una forma di governo che fosse in linea con le esperienze costituzionali dei paesi europei: non è un caso che la attuale riforma rende la nostra “Legge Fondamentale” più simile a quella dei nostri vicini di confine.

I nodi fondamentali

La riforma nello specifico tocca alcuni argomenti fondamentali: 

  • eliminazione del legame fiduciario tra Senato e Governo,
  • revisione del procedimento legislativo, con contestuale attribuzione di un ruolo marginale al Senato, rompendo, tra l’altro, il meccanismo del bicameralismo perfetto,
  • creazione di un nuovo Senato composto da membri dei Consigli Regionali e dai Sindaci dei principali Comuni, in rappresentanza delle autonomie locali,
  • abolizione delle Province e del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro,
  • tentativo di razionalizzazione della Decretazione d’urgenza,
  • rimodulazione delle materie di competenza dello Stato e delle Regioni per l’esercizio della potestà legislativa. 

Questi sono, ad avviso di chi scrive, alcuni dei passaggi fondamentali che nascondo molti lati positivi ed anche, come ovvio, alcuni aspetti rispetto ai quali non è possibile dare ad oggi una risposta, in attesa che si passi ai fatti, cioè all’interpretazione pratica delle nuove norme, in particolare da parte della Corte Costituzionale.

Eliminazione del legame fiduciario tra Senato e Governo

Per ciò che riguarda il primo punto, e cioè il “rapporto fiduciario” tra Legislativo ed Esecutivo, il fatto che sia una sola Camera a votare la fiducia al Governo rappresenta un punto estremamente positivo in termini di stabilità politica, stante l’attuale equilibrio in cui sono due i rami del Parlamento, normalmente con maggioranze diverse, a decretare, in maniera nevrotica, la fine dei Governi tempo per tempo in carica.

Il paese ha probabilmente bisogno di maggiore stabilità e, così come accade in ogni altro paese occidentale, le linee programmatiche dell’esecutivo devono essere chiare e portate avanti regolarmente per una intera legislatura.

Revisione del procedimento legislativo e ruolo del Senato

Il “nuovo” Senato andrà a rappresentare le istituzioni territoriali esercitando funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica; concorrerà all’esercizio della funzione legislativa solo in determinati casi stabiliti dalla Costituzione, nonché all’esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l’Unione europea; parteciperà alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea; valuterà le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni, verificando l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori; concorrerà, altresì, ad esprimere pareri sulle nomine di competenza del Governo nei casi previsti dalla legge e a verificare l’attuazione delle leggi dello Stato. 

Per ciò che concerne, quindi, la partecipazione del Senato al procedimento legislativo, tale funzione sarà esercitata collettivamente dalle due Camere prevalentemente per le leggi costituzionali e di revisione costituzionale, così come per le leggi di attuazione delle disposizioni concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, per i referendum popolari e le altre forme di consultazione, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo e le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane, così come per le leggi che stabiliscono le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea.

Insomma, ogni altra legge ordinaria – categoria che rappresenta percentualmente la stragrande maggioranza degli atti normalmente discussi ed approvati - è di esclusiva competenza della Camera dei Deputati con la sola possibilità riconosciuta al Senato di richiedere, entro tempistiche ristrette, una disamina del testo eventualmente approvato dalla Camera su cui esprimere un parere comunque non vincolante. 

La Camera dei Deputati diviene, di fatto, la sede principale dove sviluppare l’iter legislativo. 

Composizione del nuovo Senato

Per ciò che riguarda, invece, la nuova composizione del Senato, non più direttamente eletto dal popolo, esso sarà costituito dai rappresentati eletti all’interno dei Consigli Regionali e dai Sindaci dei principali Comuni: tale composizione, non dissimile da quanto previsto all’interno di altre Costituzioni europee, crea un sistema all’interno del quale membri già eletti tramite tornate elettorali locali, prenderanno parte ad una Assemblea nuova che non avrà più i poteri riconosciuti dal precedente dettato costituzionale ma eserciterà funzioni diverse e più circoscritte, facendo sì che i suoi componenti godano di una indennità unica, maturata in virtù del loro status di Consiglieri Regionali o Sindaci e non già di Senatori. 

A chi contesta un accavallamento di ruoli – osservazione legittima – si potrebbe rispondere che la riduzione dei poteri del Senato, non richiederà più una incalzante convocazione delle sedute Parlamentari, che diverranno chiaramente più sporadiche rispetto a quanto praticato fino a questo momento, partendo dal presupposto che il Senato, nell’ottica del bicameralismo perfetto, ha attualmente un ruolo speculare rispetto a quello della Camera dei Deputati. 

Abolizione delle Province e del CNEL

L’abolizione delle Province rappresenta un passo in avanti significativo, non solo in termini di spesa pubblica, ma anche per ciò che riguarda un profilo più squisitamente organizzativo: oltre alle Regioni, ai Comuni ed alle Città Metropolitane, sembra ormai superflua l’esistenza di un ulteriore livello di governo, spesso speculare rispetto agli stessi Comuni. 

L’abolizione del CNEL è, invece, una formalizzazione di quanto nei fatti già avvenuto da tempo: una Camera “corporativa” in rappresentanza delle principali categorie del mondo produttivo e della società civile, oltre a replicare una forma di rappresentanza già avocata dal Parlamento molti anni or sono, ed oltre a garantire una riduzione dei costi legati ai rappresentati che la compongono, così come all’enormità di impiegati, quadri e dirigenti che vi lavorano all’interno, mette un punto ad un organo che, chiamato dalla Costituzione ad esercitare l’iniziativa legislativa su materie correlate al mondo del lavoro, non ha mai davvero portato avanti questa funzione, rappresentando piuttosto una sede in cui far confluire nomine di carattere meramente politico, senza una reale incidenza sulla vita politica, sociale e legislativa del paese.

Tentativo di razionalizzazione della Decretazione di urgenza

Il testo ha anche toccato la così detta “Decretazione d’urgenza” e cioè la possibilità, riconosciuta in capo all’esecutivo, di adottare un atto avente forza di legge (quindi a quest’ultima equiparabile), in particolari casi di necessità, da sottoporre solo in via successiva alla approvazione del Parlamento entro 60 giorni dall’emanazione.

Tale strumento, di rado utilizzato secondo la ratio prevista all’interno del dettato costituzionale, è stato oggetto, negli ultimi trent’anni, di un significativo abuso: decretazione d’urgenza ha spesso significato un tentativo di scavalcare l’Assemblea, di inserire nel corpo dell’atto materie tutt’altro che urgenti e piuttosto confuse, per sottoporre, solo poi, il tutto con cadenza nevrotica, entro i termini stabiliti, alle camere.

Anche su questo la Riforma tenta di razionalizzare quanto già affermato dalla Corte Costituzionale in passato, stabilendo che il Governo non può, mediante provvedimenti provvisori con forza di legge né reiterare disposizioni adottate con decreti non convertiti in precedenza, né, tantomeno, regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei medesimi specificando che i decreti devono, inoltre, recare misure di immediata applicazione e di contenuto specifico, omogeneo e corrispondente al titolo.

Rimodulazione della ripartizione di competenze tra Stato e Ragioni

Relativamente alla rimodulazione della ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni, il testo della riforma prevede una chiara razionalizzazione, lasciando in primis sostanzialmente invariate, con qualche modifica, le numerose competenze riconosciute in capo allo Stato ed enumerando, invece, le materie di competenza Regionale mai elencate, sulle quali le Regioni sono chiamate ad esercitare la potestà legislativa.

Vengono abrogate, infine, le materie di competenza concorrente, relativamente alle quali lo Stato, da un lato, dettava con Legge i principi generali e le Regioni, dall’altro, intervenivano con una legislazione più specifica. 

Tale modifica è stata dettata senz’altro dalla necessità, da un lato, di armonizzare la disciplina di numerose materie su base nazionale e, dall’altro, di ridurre il contenzioso di fronte alla Corte Costituzionale relativo a chi, tra Stato e Regioni, avesse di volta in volta competenza a legiferare su una determinata materia, ingolfando, come avvenuto nei primi anni duemila, il lavoro della Consulta chiamata a dirimere le numerose controversie.

Conclusione

La riforma in oggetto è in linea con le aspettative di chi da molto tempo auspicava una revisione costituzionale, nonostante molti, accecati dalla saccente antipatia del Presidente del Consiglio, abbiano mutato “occasionalmente” il proprio punto di vista, sacrificando una revisione della Carta Costituzionale costruita in maniera razionale e soprattutto pensata come risultato di un dibattito che per decenni ha animato cittadini, politici e costituzionalisti. 

Chi teme una deriva autoritaria o una eccessiva centralità dell’esecutivo a danno del Parlamento, oltre a tenere una posizione sovraccaricata da un uso irresponsabile di metafore, non considera che la riduzione endemica dei piccoli partiti nello scenario politico, in favore di quelli più grandi, è un percorso inevitabile che porta ad una polarizzazione comune a tutto l’occidente democratico, con conseguente rafforzamento del ruolo dell’esecutivo, a prescindere dalla forma di Governo e dai contenuti della Carta Costituzionale: l’esecutivo insomma tende a prevalere poiché gode di una legittimazione e di una investitura “quasi diretta” diversa rispetto a quanto non avveniva in passato. Questo è un dato di fatto, con o senza Riforma. 

La Legge di revisione ha, comunque, in sé caratteri di problematicità e, come ovvio, è perfettibile, non fosse altro poiché regola meccanismi fondanti di una comunità politica complessa. 

È però possibile dire con assoluta certezza che non siamo di fronte ad un “aborto costituzionale” o alla rovina delle nostre radici politiche: l’unica cosa che possiamo affermare è la volontà di informarci, di leggere il testo, di compiere le opportune valutazioni del caso, senza esprimere un voto politico – come la gran parte dell’elettorato si accinge a fare – fondato sulla scarsa conoscenza del contenuto e della storia che questa Riforma porta con sé.

Un voto sulla Costituzione non può essere un voto politico aprioristico ma deve sottendere una riflessione intelligente e consapevolmente democratica per poi divenire, solo successivamente, un vero e proprio voto Politico.

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