Dove sono finiti i decreti attuativi del Jobs Act sul riordino dei contratti e sulla maternità? E’ un mistero. Il Governo non avrebbe i soldi e il rischio "clausole di salvaguardia" (aumento aliquota IVA e Benzina) diviene sempre più elevato
Lo scorso 20 febbraio, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi annunciava in pompa magna e con grande soddisfazione l’approvazione del Jobs Act da parte del consiglio dei ministri. Su Twitter parlava di "una giornata storica: nessuno sarà più lasciato solo". Nella consueta conferenza stampa post cdm il Premier parlava di riordino dei contratti e di "guerra al precariato".
Jobs Act: decreti attuativi
Il decreto approvato dal Governo contiene le linee guida sulla riforma del Lavoro e rimanda a successivi decreti attuativi per i "dettagli della questione". Da quel giorno è ormai passato più di un mese e di questi testi non c’è neanche l’ombra. In particolare ci si chiede dove siano finiti proprio il decreto sui contratti e quello sulla ’conciliazione dei tempi di lavoro con la maternità’. Secondo Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro della Camera, i documenti sarebbero "scomparsi dai radar". Né a Montecitorio, né a Palazzo Madama ne sanno nulla.
Il mistero è talmente fitto che sono i giornali, e non i politici, a cercare di dare una risposta. Secondo il Corriere della Sera, il problema sarebbero le coperture, tradotto il Governo non ha i soldi per finanziare queste misure:
"I contratti precari hanno in media un basso salario ma portano nelle casse pubbliche parecchi soldi, visto che i contributi possono coprire, a seconda dei casi, il 24,5% o addirittura il 30,75% della paga. Il nuovo contratto a tutele crescenti, invece, non porterà quasi nulla. Perché, oltre al licenziamento più facile, a renderlo attraente è proprio il fatto che i contributi non si pagano, con uno sconto che può arrivare fino a un massimo di 8.060 euro l’anno per tre anni. Un successo politico potrebbe diventare un problema economico".
Lo scontro tra Esecutivo e Ragioneria di Stato sarebbe "all’ultimo sangue". I contabili avevano già paventato numerosi dubbi sul decreto che regolava il contratto a tutele crescenti, adesso però le perplessità sarebbero diventate vere e proprie certezze. Lo stesso Cesare Damiano, ha dichiarato ai giornalisti del fattoquotidiano.it:
"Se uno va di fretta, rischia di scoprire dopo che non funziona. Nella scrittura dei decreti, noto alcune ingenuità e superficialità. Varrebbe la pena di fare lavori più accurati. Se non vogliamo solo un fuoco di paglia, una fiammata propagandistica, sui tanti contratti a tutele crescenti, bisogna innanzitutto rendere strutturali gli incentivi alle assunzioni, e non solo per il 2015".
Clausole di salvaguardia
Mentre dunque il Governo cerca di reperire le coperture necessarie a finanziare la riforma del Lavoro, il pericolo, reale pericolo, è che la mancanza di fondi faccia scattare le clausole di salvaguardia previste dalla Legge di Stabilità 2015. Di cosa stiamo parlando? Dell’ennesimo aumento IVA e degli incrementi sulle accise che nel 2018 peseranno fino a 30 miliardi di euro.
Per evitare di far scattare le suddette clausole il Governo ha a disposizione due vie: tagliare finalmente la spesa pubblica, attuando una spending review seria e mirata (a proposito, che fine ha fatto Cottarelli?) o sperare nella presunta ripresa del PIL italiano che faccia aumentare le entrate fiscali.
"Dobbiamo ridurre la pressione fiscale specifica sul lavoro e sulle imprese per renderla, nel 2018-2020, analoga per dimensioni a quella della Germania. Per raggiungere questo obiettivo dovremmo rinunciare a 36-37 miliardi di gettito annuo".
Un’ulteriore misura che, per carità, sarebbe parecchio gradita ai cittadini. Ma il Governo, anche in questo caso, i soldi dove li trova?
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