Israele attacca l’Iran e un’altra guerra minaccia seriamente il Medio Oriente, regione cruciale per il mondo: quali conseguenze economiche aspettarsi? L’impatto in 4 punti.
La minaccia di un Medio Oriente in fiamme, con pericolose conseguenze per l’economia mondiale, è diventata realtà con gli ultimi tragici eventi accaduti il 13 giugno: Israele ha lanciato attacchi aerei contro i siti nucleari e balistici dell’Iran, avvertendo l’offensiva potrebbe continuare “per tutti i giorni necessari”.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha definito l’operazione iniziale un grande successo. L’Iran ha poi inviato droni verso Israele, avvertendo che le risorse israeliane e statunitensi nella regione avrebbero potuto essere prese di mira in modo duro.
Al momento non ci sono indicazioni che gli attacchi, in corso, abbiano causato gravi danni agli impianti nucleari iraniani: l’organismo di controllo atomico delle Nazioni Unite ha dichiarato in precedenza di non aver rilevato alcun segno di aumento delle radiazioni nel principale sito di arricchimento. L’impatto più grave sembra essere sulla leadership iraniana, con la morte del comandante della Guardia Rivoluzionaria e di altri.
Donald Trump ha dichiarato su Truth Social di aver dato all’Iran “un’opportunità dopo l’altra per raggiungere un accordo...”. Gli Stati Uniti hanno affermato di essere stati informati in anticipo degli attacchi, ma di non essere coinvolti.
Il quadro è decisamente complesso e pericoloso. Inevitabili, quindi, conseguenze sull’economia mondiale. L’impatto più evidente sul mercato si è registrato sul petrolio, che è salito fino al 13% prima di cedere alcuni guadagni. I mercati azionari hanno subito ribassi meno marcati, con l’oro in rialzo.
Gli effetti di una guerra aperta tra Israele e Iran potrebbe essere distruttivi per l’economia globale. In 4 punti, ecco cosa potrebbe accadere.
1. Balzo del prezzo del petrolio
La prima reazione di una guerra allargata in Medio Oriente, con l’intervento diretto di Israele, è stata quella di un’impennata del prezzo del petrolio.
Il greggio Brent ha superato i 78 dollari al barile a un certo punto, il maggiore balzo giornaliero da marzo 2022, durante l’invasione russa dell’Ucraina, prima di ridurre i guadagni a 74 dollari al barile circa verso le 14.46 di venerdì 13 giugno. Il prezzo del gas naturale europeo, anch’esso un importante prodotto di esportazione del Medio Oriente, è aumentato e la domanda di beni rifugio ha spinto l’oro verso un nuovo record.
Il settore energetico, quello petrolifero in primis, è il primo a risentire di tensioni nell’area. L’Iran, anche se non è più l’attore principale nella fornitura di petrolio che era in passato, soprattutto per i Paesi occidentali, gioca ancora un suo ruolo nel settore. E potrebbe rompere gli equilibri di domanda/offerta.
Teheran è un produttore e membro dell’OPEC, ma esporta la maggior parte del suo greggio in Cina a causa delle sanzioni internazionali. Tuttavia, una riduzione delle esportazioni di petrolio iraniano avrebbe un impatto “massiccio” sul mercato globale, poiché Pechino sarebbe costretto a competere con altri Paesi per le forniture. E i prezzi aumenterebbero con minore materia prima, ma stessa domanda.
L’Iran esporta fino a 1,5 milioni di barili al giorno di greggio, equivalenti all’1,5% della fornitura globale di petrolio.
Episodi drammatici possono far schizzare il prezzo del petrolio anche a 300 dollari al barile in un attimo, aveva ipotizzato il professore esperto di energia Nicolazzi su Ispi (in occasione degli attacchi iraniani con droni su Israele ad aprile 2024). L’attuale situazione è molto simile. Anche se, aveva ricordato il professore, non sarebbe così conveniente per l’Iran perdere vendite di petrolio in Cina, diminuendo quindi l’export in segno di ritorsione contro gli Usa.
JPMorgan Chase & Co. ha recentemente lanciato l’allarme: i prezzi potrebbero raggiungere i 130 dollari al barile nel caso di un blocco dei flussi attraverso lo Stretto di Hormuz o di una più ampia conflagrazione in Medio Oriente. Frontline Ltd., uno dei maggiori operatori di petroliere al mondo, è “molto più titubante” nell’offrire le sue navi per il trasporto di merci dal Golfo Persico in seguito ai raid aerei israeliani, ha dichiarato telefonicamente Lars Barstad, amministratore delegato della società di gestione di Frontline.
“La capacità inutilizzata dell’OPEC+ potrebbe potenzialmente far fronte a una perdita di produzione iraniana”, ha affermato Mukesh Sahdev, analista di Rystad Energy A/S. “Tuttavia, una potenziale ritorsione da parte di Teheran, incluso un possibile blocco dello Stretto di Hormuz, potrebbe rendere difficoltoso l’utilizzo della capacità inutilizzata”, ha aggiunto.
2. Rotte commerciali nel caos
Una guerra tra Iran e Israele, con il coinvolgimento potenziale anche di Iraq e Libano, avrebbe ripercussioni commerciali su rotte cruciali, quelle del Golfo Persico.
Innanzitutto, potrebbe crescere la tensione sullo Stretto di Hormuz, una stretta via d’acqua alla foce del Golfo Persico. Questa è una delle principali rotte di navigazione che gestisce quasi il 30% del commercio mondiale di petrolio, attentamente monitorata per segnali di interruzione.
L’Iran ha ripetutamente preso di mira le navi mercantili che attraversano il punto di strozzatura nel corso degli anni e ha minacciato di bloccare il transito in passato. Il 13 aprile 2024, prima di lanciare un massiccio assalto missilistico e con droni contro Israele, l’Iran, per esempio, aveva affermato di aver sequestrato una nave portacontainer legata a Israele vicino allo stretto.
“Interruzioni o blocchi del traffico nello Stretto di Hormuz cambierebbero le carte in tavola”. Secondo un’osservazione di qualche mese fa di Richard Bronze, co-fondatore e analista della società di dati Energy Aspects, “questa è la via principale o unica per gli esportatori di petrolio mediorientali, inclusi i membri dell’OPEC Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti”. Le conseguenze ci sarebbero.
Le conseguenze ci sarebbero. Queste potrebbe essere mitigate dagli esportatori che utilizzano rotte più lunghe, ma il danno ai prezzi del petrolio potrebbe essere significativo e duraturo. Non ci sono molte rotte alternative dai principali siti di produzione ai Paesi occidentali.
Alcuni esperti, comunque, sono prudenti al riguardo. La reazione del mercato non lascia presagire agli operatori economici uno scenario peggiore, che preveda un blocco dei flussi attraverso lo Stretto di Hormuz. Chiudere lo stretto sembrerebbe un obiettivo irrealistico e poco saggio per Teheran, anche se nelle prossime settimane o mesi potrebbero verificarsi intimidazioni nei confronti del traffico commerciale.
Secondo alcune analisi, infatti, ci sono molte ragioni per cui l’Iran non dovrebbe tentare la chiusura completa dello stretto per un periodo di tempo significativo. I suoi alleati lo detesterebbero; sarebbe inoltre difficile chiudere il passaggio, pur consentendo l’ingresso e l’uscita del petrolio iraniano, e l’atto rappresenterebbe una significativa escalation per i suoi nemici.
Non solo, il sostegno iraniano ai militanti Houthi in Yemen, che ha portato ad attacchi alle navi mercantili alla fine del 2023, ha ridotto il traffico marittimo nel Canale di Suez di circa il 50%, secondo il Fondo Monetario Internazionale. Uno scenario di guerra potrebbe alimentare questo strumento di ritorsione. Strozzature alle vie commerciali si traducono sempre in prezzi più alti di merci e materie prime.
Occorre considerare, infatti, anche l’eventuale innalzamento dei costi di nolo, assicurativi e per affrontare viaggi più lunghi da parte dei portacontainer che devono scegliere nuove rotte.
3. Inflazione in rialzo
Con un effetto a catena, prezzi di beni e materie prime in rialzo vanno a incidere sull’inflazione. Proprio quando le banche centrali hanno iniziato a ridurre gli alti tassi di interesse e dare ossigeno alle imprese e alle famiglie, lo scenario potrebbe cambiare.
Il contesto non è dei migliori se si considera la guerra dei dazi innescata da Trump. La tensione altissima tra Stati Uniti e Cina, le tariffe già imposte contro i beni esportati negli USA dal resto del mondo, il clima di rivalità commerciale con l’UE ha messo in moto un timore di prezzi più alti ovunque, che potrebbe solo peggiorare.
Un conflitto, con il coinvolgimento degli Usa a sostegno di Israele, aumenta l’incertezza sulla ripresa economica mondiale e sul percorso di politica monetaria. Una ipotetica impennata dei prezzi bloccherebbe la politica accomodante delle banche centrali? L’interrogativo resta, con la conseguenza di un’economia indebolita, proprio mentre fatica a riprendersi.
4. Terremoto nei mercati
Una guerra aperta tra Israele e Iran, in un contesto geopolitico cruciale quale il Medio Oriente, renderebbe i mercati più incerti e fragili. Alcuni segnali si sono già palesati.
La maggior parte dei mercati azionari asiatici è crollata con la notizia dell’attacco israeliano.
Oro, dollaro Usa, franco svizzero, yen, obbligazioni sono solitamente asset che beneficiano di guadagni in quanto assumono la funzione di “rifugio” in periodi drammatici come quelli dominati da conflitti. Gli investitori si sono infatti riversati su questi asset, con l’oro non lontano dal massimo storico. Il dollaro è stato scambiato vicino al suo massimo in tre settimane rispetto all’euro.
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Un crollo delle azioni sarebbe un segnale negativo per l’espansione economica e un generale freno agli investimenti poiché dominerebbe la sfiducia.
“Nella catena di potenziali shock di volatilità del mercato, la geopolitica solitamente prevale sull’economia, sugli utili aziendali o sulla risposta della banca centrale, in gran parte perché la maggior parte degli operatori di mercato non è in grado di valutare il rischio legato a questi eventi”, aveva spiegato Chris Weston, responsabile della ricerca presso Pepperstone, mesi fa. La teoria resta valida.
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