11 settembre, il ventennale con i Talebani di nuovo al potere. Per gli stessi interessi

Mauro Bottarelli

11/08/2021

11/08/2021 - 20:40

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Un tour diplomatico in Cina e Turkmenistan e il «via libera» Usa con il ritiro delle truppe: gli estremisti giocano anche una partita per conto terzi. Fra Asia centrale e «sgarbo» iraniano a Jask

11 settembre, il ventennale con i Talebani di nuovo al potere. Per gli stessi interessi

Kabul potrebbe cadere entro un mese. Alla Casa Bianca ne sono pressoché certi, dopo l’ultimo aggiornamento fornito dall’intelligence all’entourage del presidente Joe Biden. La scorsa notte, infatti, i talebani hanno preso il controllo di un altro capoluogo di provincia, quello di Faizabad nel Nord-Est.

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Fonte: Al Jazeera
Si tratta del nono in sei giorni di combattimenti, divampati in grande stile dopo il ritiro delle truppe americane. A detta del portavoce del gruppo integralista, Zabihullah Mujahid, nessuno è rimasto ferito in queste operazioni, dal momento che il nemico è scappato.

Insomma, controllando già il 65% del territorio nazionale, i Talebani si appresterebbero all’offensiva finale per la conquista della capitale. Evento che, se realmente accadesse fra un mese, potrebbe coincidere pressoché perfettamente con il ventennale dell’11 settembre: una beffa del destino, quasi una tragica congiura della storia. Ma che tale non è. Perché per quanto Joe Biden abbia confermato come non rinneghi affatto la decisione di aver ritirato i contingenti Usa lo scorso aprile (coincisa, di fatto, con l’offensiva degli estremisti), appare interessante capire il motivo in base al quale, solo l’altro giorno, il presidente abbia allora sentito il bisogno di schierare i bombardieri per cercare di rallentarla.

Ma quanto sta accadendo ha un senso geopolitico preciso. Tortuoso quanto una pipeline. Ma preciso. E pericolosissimo. Perché molti analisti cominciano a temere che nelle intenzioni di Washington ci sia la volontà - tutt’altro che scontata nell’esito - di trasformare i barbuti studenti coranici e la loro furia estremista nel cavallo di Troia per destabilizzare l’area. Ancora una volta. Ma tutto appare aperto. Tremendamente aperto. Lo scorso 28 luglio, infatti, una delegazione di nove capi talebani (fra cui uno dei co-fondatori del movimento, il mullah Abdul Ghani Baradar) è stata accolta con tutti gli onori a Tianjin dal ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, il quale ha sottolineato come la Cina si aspetti di giocare un ruolo importante nel processo pacifico di riconciliazione e ricostruzione dell’Afghanistan. Tradotto dalla lingua diplomatica cinese, annegare di finanziamenti il Paese al fine di garantirsi una sfera di influenza privilegiata.

Non a caso, il messaggio del Dragone ai talebani è stato chiaro: Non interferiremo direttamente in questioni interne. E finora, così è stato. Ma questo non significa che Pechino non stia vigilando. Attentamente, ancorché in silenzio e in disparte. E che i Talebani siano impegnati in un tour diplomatico di legittimazione internazionale ai massimi livelli lo conferma anche la visita compiuta attorno al 10 di luglio da una delegazione di alti rappresentanti ad Ashgabat per incontrare funzionari del ministero degli Esteri del Turkmenistan. Nazione quest’ultima che confina con l’Afghanistan e che teme un’offensiva talebana, tanto da aver minacciato più volte di schierare l’esercito in modalità di intervento rapido. In questo caso, la mediazione sarebbe stata compiuta direttamente da Mosca, anch’essa interessata a uno sviluppo pacifico della situazione in un quadrante del mondo di importanza vitale.

In primis, per le fonti energetiche. Non a caso, la delegazione talebana era guidata dal capo dell’ufficio politico in Qatar, Sher Muhammad Abbas Stanikzai . E questa cartina

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Fonte: Stratfor
mostra chiaramente l’importanza strategica del Turkmenistan per quanto riguarda il gas naturale, un qualcosa che dovrebbe interessare direttamente - e molto - proprio l’Europa. la stessa entità politica che in queste ore sta mostrandosi invece totalmente spiazzata e impreparata verso quanto sta accadendo. E il suo precipitare. I numeri parlano chiaro: il Turkmenistan può contare sulle quarte riserve di gas naturale al mondo, circa 19,5 trilioni di metri cubi e il 10% del totale globale. Soltanto il giacimento di Galkynysh può vantare una produzione di 2,8 trilioni di metri cubi, una delle maggiori in assoluto al mondo.

Nemmeno a dirlo, la Cina ha da tempo messo gli occhi su quel tesoro energetico: solo nel 2019, le aziende del Dragone hanno importato qualcosa come 43 miliardi di metri cubi di gas dal Turkmenistan, l’80% dell’export di quell’anno. E gli analisti, nonostante i contratti siano segreti, appaiono certi del fatto che Ashgabat stia cercando una politica di diversificazione verso l’Europa, proprio a causa dell’alto indebitamento cui già oggi deve fare fronte nei confronti della Cina nell’ambito della Central Asia-China Gas pipeline (Cacg). Il tutto, poi, alla luce della recente conclusione del Southern Gas Corridor, progetto da 40 miliardi di dollari che consiste nell’intersezione delle due pipelines, Tanap e Tap, dall’Azerbaijan all’Europa del Sud.

Di fatto la possibilità - per la prima volta da decenni - di un export diretto di gas naturale dall’Asia Centrale al Vecchio Continente. E al netto di questi due grafici

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Fonte: Bloomberg

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Fonte: Bloomberg/Zerohedge
e delle dinamiche legate alle forniture di gas naturale per l’Europa, Bruxelles dovrebbe essere in prima fila nel consesso internazionale di chi non intende assistere inerme a quanto avviene in Afghanistan. Invece, silenzio di tomba.
In compenso, la Cina c’è. La Russia, pure. Il Qatar anche. E per un altro motivo: il risiko energetico è più ampio e contempla anche il fronte iracheno, divenuto prioritario per gli Usa in chiave anti-iraniana dopo il disimpegno interessato dall’Afghanistan. E nulla come il ritorno al potere dei Talebani e della loro furia iconoclasta verso l’influenza degli sciiti potrebbe facilitare il lavoro al Dipartimento di Stato, oggi più che mai desideroso di alzare la tensione con Teheran.

Il motivo? Lo mostrano queste altre due cartine,

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Fonte: GoogleMaps

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Fonte: Reuters
le quali esemplificano chiaramente la mossa del cavallo appena compiuta dagli ayatollah: l’inaugurazione dell’hub per l’export petrolifero a Jask, officiata dal presidente uscente, Hassan Rouhani, in teleconferenza il 22 luglio scorso. E l’importanza del progetto, sbocco naturale per le esportazioni della pipeline Goreh-Jask, a sua volta un’infrastruttura da 2 miliardi di dollari di investimento, è chiara. Ovvero, offrire all’export di petrolio iraniano una via alternativa a quella dello stretto di Hormuz che gli statunitensi hanno più volte minacciato di bloccare, in ossequio alle sanzioni e al bando applicati come risposta al mancato accordo sul nucleare.

E con i colloqui di Vienna in fase di totale stallo dopo l’elezione a nuovo presidente dell’oltranzista Ebrahim Raisi, una mossa simile appare una chiara provocazione di Teheran proprio verso gli Usa. E una palese prova di forza tramite il proxy più caldo dell’area posta in essere dalla Cina, attivissima anche sul fronte dell’Asia Centrale, dopo la campagna acquisti - a colpi di prestiti miliardari - compiuta nell’ultimo decennio in Africa e l’apertura della base militare strategica a Djibuti. Quelle prime 100 tonnellate di greggio partite il 22 luglio scorso da Jask, insomma, rappresentano un passo di enorme importanza per l’Iran, come confermato dallo stesso Presidente uscente: uno dei choke-point più strategici e controllabili al mondo è stato bypassato, l’Iran ha telegrafato al mercato globale la sua volontà di esportare petrolio.

Con o senza la benedizione di Washington, potendo contare su quella di Pechino. E Mosca. La quale, di fatto, resta soggetto ancora poco vulnerabile al ritorno in grande stile del petrolio iraniano nel computo della produzione ufficiale di greggio, dopo anni di grey market noto a tutti, nonostante il divieto. Un risiko enorme. Già in atto e con l’incognita della variante Delta che potrebbe far deragliare le speranze Opec per un consolidamento di quota 70 dollari al barile e un trend verso i 100 dollari entro fine anno, spinto proprio dalla ripresa post-pandemica. Per questo, il ventennale dell’11 settembre sarà qualcosa più di una ricorrenza storica ed emotiva. Sarà una prova del fuoco, la cartina di tornasole di esiziali equilibri geopolitici in movimento. Con buona pace di 3.000 cittadini innocenti rimasti sotto un cumulo di macerie.

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