Presidentessa o la presidente? Una domanda evergreen quella sui femminili professionali alla quale dare una risposta. Ecco come si dice.
Giorgia Meloni è la prima presidente del Consiglio. La prima presidente donna e per molti è iniziata una fase di confusione tra “presidentessa” e “la presidente” che è un vero e proprio evergreen linguistico. Come si dice la parola “presidente” al femminile, cioè riferendosi a una donna? Banalmente, “presidente” è la persona che “presiede”, uomo o donna: il presidente se uomo, la presidente se donna. Ma entriamo nel dettaglio.
L’italiano è una lingua nella quale il neutro non esiste. Esisteva in latino e in greco, mentre l’italiano assegna un genere maschile e femminile, chiamato genere grammaticale, a ogni sostantivo. Il ruolo del neutro è stato archiviato in seguito all’utilizzo generalizzato del maschile sovraesteso, motivo per il quale si utilizza “tutti” in riferimento a una platea di uomini e donne - e altri non all’interno del binarismo di genere - o “uomini” per intendere tutta l’umanità. Negli ultimi anni diversi accademici e accademiche hanno tentato di portare nuova luce sui femminili dei sostantivi, soprattutto quelli di professioni che possono suonare male. Si tratta quindi di dare spazio a figure che non erano mai esiste prima della cementificazione della parola al maschile, le cui forme femminili nella grammatica sono comunque corrette.
Tra “presidente” e “presidentessa” vi è la differenza del suffisso, cioè -essa che si aggiunge per rendere al femminile sostantivi pensati al maschile. Eppure presidentessa, dottoressa, avvocatessa e poetessa in una battaglia per la parità di genere, che passa anche attraverso le parole, non sono più indicati. A questi si preferisce il suffisso zero, cioè l’assenza di un suffisso derivato e spesso impiegato in maniera dispregiativa, come spiega Treccani.
La presidente o la presidentessa: la forma corretta
La parità di genere passa anche attraverso le parole, perché ciò che non viene nominato rimane invisibile. In molti casi questo accenno all’importanza delle parole è stato definito come un capriccio o, peggio ancora, relegato a qualcosa di poco valore, perché ci sono cose più importanti. Ma soprattutto, la critica che va per la maggiore, è quella per cui le parole al femminile “suonano male”.
Le lingue mutano e assecondano le esigenze dei parlanti, perché sono i parlanti che fanno la lingua. Non c’è un’istituzione che decide per la lingua, che ne fa le regole ed emette multe per chi non la rispetta. Tra il 2008 e il 2014 alla presidenza dell’Accademia della Crusca ci fu una donna, Nicoletta Maraschino, la prima e unica donna presidente della Crusca. Maraschino decise di utilizzare il termine presidente per indicarsi e non “presidentessa”. L’utilizzo dell’articolo femminile e non del suffisso -essa è dato da un motivo specifico: il suffisso -essa serviva per indicare le mogli e spesso era dispregiativo. Per questo viene consigliato di utilizzare il suffisso zero, come per avvocata.
“Presidente” infatti è un sostantivo che deriva da un participio presente latino e come giudice, docente e preside: basta modificare l’articolo al maschile o al femminile per far comprendere di chi si sta parlando. In definitiva non esiste una forma più corretta, sono entrambe valide, ma “presidentessa” è una forma sconsigliata per i motivi sopra riportati, mentre oggi si preferisce il suffisso zero per aggiungere, anche attraverso la lingua, la rappresentazione e quindi la parità di genere.
I sostantivi femminili nel tempo: un contributo linguistico
Declinare i nomi delle professioni al femminile non è un argomento degli ultimi anni o della deriva del politicamente corretto, come a molti piace raccontare. Già nel 1986-87 Alma Sabatini curò il testo “Il sessismo nella lingua italiana”, un testo per la presidenza del Consiglio dei Ministri e la commissione nazionale per la Parità e le Pari Opportunità tra uomo e donna. In particolare, come sottolinea Vera Gheno, sociolinguista specializzata in Comunicazione mediata dal computer e docente all’Università di Firenze, nel suo testo “Femminili singolari - Il femminismo è nelle parole”:
Lo scopo di queste raccomandazioni è di suggerire alternative compatibili con il sistema della lingua per evitare alcune forme sessiste della lingua italiana, almeno quello più suscettibile di cambiamento. Il fine minimo che ci si propone è di dare visibilità linguistica di donne e pari valore linguistico a termini riferiti al sesso femminile.
I e le linguiste hanno opinioni differenti, non solo nel tempo. Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca ha spiegato che la lingua è una democrazia in cui la maggioranza governa e i grammatici prendono atto delle innovazioni e cercano di farle andare d’accordo con la tradizione. In questo senso, egli accorda l’esistenza di femminili professionali al fatto stesso che le minoranze hanno diritto di esistere, anche se ribelli e se suonano male. La grammatica, spesso scomodata in nome della tradizione dei maschili professionali sovraestesi, non si fa problemi invece a riconoscere i sostantivi di genere fisso, quelli di genere promiscuo, quelli di genere comune - dove a variare è solo l’articolo per il maschile e il femminile - e i sostantivi di genere mobile come attore e attrice, come revisore e revisora, come sindaco e sindaca.
I femminili professionali non sono nuovi, non sono “neologismi”, sono, scrive ancora Vera Gheno, inediti, cioè forme previste dal sistema italiano ma rimaste dormienti perché non servivano. Oggi invece servono.
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