Settimana corta, perché per l’Italia è un’urgenza: tutti i vantaggi

Stefano Rizzuti

12 Aprile 2023 - 11:07

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Il professore Luca Solari spiega a Money.it quali possono essere i benefici dell’applicazione della settimana lavorativa di 4 giorni: dagli effetti sul mercato a quelli su aziende e lavoratori.

Settimana corta, perché per l’Italia è un’urgenza: tutti i vantaggi

Il percorso è tortuoso, ma la settimana lavorativa di quattro giorni può arrivare anche in Italia. E, anzi, potrebbe dare un’importante spinta a un mercato che ha bisogno di una svolta e di nuovi modelli in competizione tra loro. È Luca Solari, professore ordinario dell’Università Statale di Milano ed esperto di Organizzazione aziendale, a spiegare in un’intervista a Money.it perché l’applicazione della settimana corta può portare diversi benefici al nostro Paese.

La discussione sulla settimana corta si è aperta anche in Italia dopo il successo dell’esperimento fatto da alcune aziende nel Regno Unito. La domanda che in molti si pongono riguarda il modello italiano: i risultati ottenuti nel testo britannico sono replicabili?

Settimana corta, si può fare anche in Italia?

Il professor Solari non ha dubbi: dal punto di vista organizzativo-gestionale la settimana corta si può fare anche in Italia. Ma dipende “dal tipo di organizzazione, dall’attività che svolge, dalle sue dimensioni”. Difficile pensare a una piccola impresa che offre servizi e che necessita di un’apertura continuativa, mentre sicuramente è più facile pensare che organizzazioni più grandi possano rivedere la turnistica in modo da coprire comunque, “anche a fronte di un costo aggiuntivo”, tutti gli spazi necessari.

Più problematica è invece la fattibilità dal punto di vista della regolazione del lavoro, perché - come sottolinea Solari - “il rapporto di lavoro su cui si basa il nostro assetto di diritto del lavoro è lo scambio tra il numero di ore e la retribuzione, quindi è chiaro che questo elemento va in una direzione diversa rispetto all’idea di settimana corta” con una riduzione delle ore, distribuite su quattro giorni.

Il problema principale, per quanto spesso sottolineato da diversi esponenti politici, non è neanche quello della produttività: “Se davvero si riuscisse a mantenere lo stesso output con un numero più basso di ore, non ci sarebbe il problema. Se ragioniamo sul concetto di produttività come output, se applicata bene la settimana corta dovrebbe portare a un recupero di produttività”. Se, invece, ragionassimo in termini di output prodotto sul costo del lavoro invece rimarrebbe costante, sottolinea ancora il professore. Il vero tema, a suo giudizio, è “se in quattro giorni posso produrre lo stesso o addirittura di più che in cinque giorni”.

Il modello italiano e quello del Regno Unito

Uno dei dubbi sollevati sulla settimana corta in Italia si basa sul fatto che il modello italiano è diverso da quello del Regno Unito. Innanzitutto, ricorda Solari, va ricordato che anche l’esperimento del Regno Unito ha riguardato un campione ridotto di aziende e non è ancora certo che la settimana corta funzioni in senso generale.

Ci sono poi altri esempi positivi, come quello islandese. Ma comunque bisogna sempre considerare quali aziende hanno aderito alla sperimentazione. Di sicuro bisogna considerare che in Italia c’è un’alta presenza di aziende di dimensioni ridotte, per le quali è probabilmente più complessa una riorganizzazione della turnistica su quattro giorni a parità di risultato.

Secondo il professore, quindi, c’è il rischio che per molte imprese la settimana di quattro giorni possa avere effetti controproducenti e per questo la soluzione migliore non è una regolazione nazionale della disciplina, ma una singola scelta aziendale. Se prendiamo come riferimento il caso britannico, comunque, ci sono altre aziende italiane in cui le differenze non sono così tante e per questo si deve procedere per un’altra via: “Bisogna identificare le organizzazioni, fare un test - magari incentivandole - per un anno, misurare i risultati e poi capire quale possa essere la soluzione migliore”.

Settimana corta, quale modello per l’Italia

Pensare a un modello unico nazionale di applicazione della settimana corta per l’Italia, quindi, sarebbe sbagliato. Probabilmente la soluzione migliore, secondo il professore, non è neanche quella di fare le stesse ore di lavoro ma su quattro giorni invece di cinque. Applicare la settimana ridotta potrebbe invece avere un grande vantaggio: “Mettere mano a modelli di funzionamento già molto poco razionali - penso al proliferare di riunioni non sempre utili - non a caso gli esperimenti più interessanti sono stati quelli in cui sono state tolte le attività inutili”.

Quanto tempo ci vuole per arrivare alla settimana lavorativa di 4 giorni

Quali potrebbero essere le tempistiche per l’applicazione della settimana corta in Italia? Se pensiamo a una singola azienda, che decidesse di farlo unilateralmente, possono allora bastare pochi mesi: il professore cita gli esempi estoni o finlandesi, dove sono bastati progetti di tre mesi. Per imprese più grandi un progetto pilota può richiedere 5-6 mesi.

Se invece pensassimo a un test nazionale, allora i tempi sarebbero più lunghi: “Probabilmente darei 12 mesi di tempo per le organizzazioni e a valle di tutto questo raccogliere i risultati in maniera sistematica. Su questa base, anche con macro-accordi coinvolgendo parti sociali e governo, si può immaginare una soluzione. Che per legge è poco realizzabile, ma si può lasciare libertà alle organizzazioni, con il governo che può intervenire per incentivare” queste formule, è il giudizio di Solari.

Settimana corta, come cambieranno gli stipendi

Uno dei temi che molti esperti sottolineano e su cui Solari è d’accordo è che “forse la riduzione del tempo lavorato non è la priorità” dei lavoratori. Questo vuol dire è possibile che non tutti i lavoratori siano intenzionati a vedersi ridurre le ore a stipendio invariato, ma magari puntano di più a un aumento retributivo.

Per questa ragione, spiega il professore, l’importante è non pensare di trovare una soluzione uguale per tutti, lasciando decidere ai lavoratori cosa preferiscono. Il tema, secondo Solari, “è andare verso una pluralità di soluzioni, perché proprio la competizione tra una pluralità di modelli produce effetti potenziali: siamo ossessionati dal fatto che bisogna muoversi tutti nella stessa direzione, invece dobbiamo aumentare la capacità del sistema di accettare la diversità”.

Proprio questo potrebbe produrre effetti stabiliti anche dal mercato: “Se un’azienda è in grado di lavorare su quattro giorni è evidente che le persone saranno attratte da quell’azienda, così magari un’altra azienda per attrarre i lavoratori, lavorando su cinque giorni, dovrà pagarli di più”.

Perché all’Italia serve la settimana corta

L’applicazione della settimana lavorativa di quattro giorni può davvero rivoluzionare il mercato italiano? Un effetto probabile, secondo il professore, riguarda la possibilità per le aziende di scoprire “quanta attività improduttiva svolgono oggi su cinque giorni”. Potrebbe quindi essere un’occasione di crescita, “per aumentare la competitività produttiva di sistema, che è tra le problematiche più rilevanti in Italia”.

Inoltre, a giudizio di Solari, gli effetti della settimana corta sul mercato del lavoro potrebbero essere positivi per un’altra ragione: “Credo che un po’ di tensione legata al fatto di avere modelli in competizione tra loro possa essere solo occasione di beneficio”.

Fare una previsione sulla possibile applicazione della settimana lavorativa di quattro giorni in Italia non è semplice, ma Solari un’idea ce l’ha su cosa potrebbe avvenire: “Purtroppo la storia del nostro Paese ci insegna che gli elementi di trasformazione, se non obbligati come con la pandemia, riguardano una percentuale minima di imprese che sono di medie e grandi dimensioni”.

Per il professore paghiamo un “deficit culturale di competenze, di capacità organizzative, di cultura manageriale, che riguarda soprattutto le piccole imprese. Abbiamo grandi imprenditori, ma modelli manageriali molto antichi. Temo che anche questa trasformazione farà fatica ad avere un impatto di sistema, serve un salto di qualità delle parti sociali datoriali, dei sindacati e dell’attore politico”.

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