Questo Paese europeo spende solo lo 0,2% del Pil per la difesa

Luna Luciano

15 Giugno 2025 - 16:50

Mentre l’Europa si riarma, l’Irlanda continua a investire solo lo 0,2% del PIL nella difesa: ecco perché e quali sono i rischi.

Questo Paese europeo spende solo lo 0,2% del Pil per la difesa

L’Irlanda spende circa lo 0,2 % del PIL per la difesa. È questo ciò che ha messo in evidenza il think tank Bruegel, che osserva come con l’avanzare della crisi geopolitica, data dalla guerra in Ucraina, dal genocidio a Gaza e dall’attuale guerra tra Iran e Israele, si torni a parlare in Europa di armamenti.

E ora che anche il sostegno degli Stati Uniti all’Ue vacilla è importante che i Paesi membri facciano un po’ il punto della situazione.

Per decenni, molti Paesi dell’Unione Europea hanno potuto permettersi una spesa limitata in ambito militare, forti del riparo geopolitico offerto dall’ombrello NATO e dall’alleanza con gli Stati Uniti. Ma oggi quel contesto è mutato. Le tensioni globali si moltiplicano, il rischio di una guerra ad alta intensità non è più escluso, e la vulnerabilità europea emerge con forza.

In questo scenario, l’Irlanda rappresenta un’eccezione sempre più isolata. La sua storica neutralità e il rifiuto di un ruolo offensivo nelle dinamiche militari internazionali la portano a mantenere una delle spese militari più basse del continente. Tuttavia, alla luce dei nuovi equilibri mondiali, anche questa posizione potrebbe essere riconsiderata. Ecco tutto quello che c’è da sapere a riguardo.

Quali Paesi spendono di più per la difesa?

Il quadro della spesa per la difesa in Europa, secondo i dati riportati nel rapporto analizzato da Bruegel, mostra forti disparità tra i vari Stati membri. Ecco alcuni esempi basati su percentuali del PIL:

  • Irlanda: 0,2%;
  • Grecia: 1,9%;
  • Ungheria: 1,9%;
  • Lituania: 2,5%;
  • Estonia: 2,7%;
  • Lettonia: 3,1%;
  • Polonia : 3,8%;
  • UE complessiva (media): 1,9%.

Le economie più grandi, come Germania, Francia e Italia, rimangono vicine complessivamente alla media europea, ma a colpire positivamente gli Stati Uniti è stata la Polonia, elogiata da Trump e presentata come nuova superpotenza militare.

L’Irlanda si distingue, invece, come il Paese che investe meno nella difesa, con appena lo 0,2%. La ragione principale di questa scelta è storica e politica: lo Stato irlandese mantiene una posizione di neutralità militare, non è membro della NATO e ha sempre puntato su una politica estera improntata alla diplomazia e alla cooperazione internazionale.

Questa filosofia ha consentito all’Irlanda di destinare più risorse ad ambiti civili come welfare, istruzione e salute, senza compromettere la sua immagine globale. Di fronte alle attuali minacce – sia convenzionali che ibride – questa strategia potrebbe rivelarsi troppo fragile.

Va ricordato, però, che sebbene la difesa sia oggi al centro del dibattito europeo, essa non può e non deve sostituire la diplomazia. Al contrario, molti esperti avvertono: l’intensificazione delle spese militari, se non accompagnata da un serio impegno negoziale, rischia di alimentare un’escalation internazionale, piuttosto che garantire stabilità.

Difesa, non tutti i Paesi investono allo stesso modo: la proposta di Bruegel

Il think tank Bruegel ha elaborato una proposta per riequilibrare le disparità nella spesa per la difesa tra i Paesi dell’UE. L’idea è semplice quanto ambiziosa: introdurre un meccanismo fiscale legato al livello di investimento militare di ogni Stato membro.

In dettaglio, Bruegel propone una nuova imposta europea che si applicherebbe solo ai Paesi che non raggiungono una soglia minima di spesa, ossia il 2% del PIL, come raccomandato dall’UE. Una “tassa punitiva” che andrebbe direttamente a finanziare il bilancio comune dell’Unione. Secondo le stime degli autori, un tale sistema potrebbe generare fino a 30 miliardi di euro all’anno. L’obiettivo è duplice:

  • incentivare gli Stati membri a investire nella propria sicurezza;
  • creare una nuova risorsa per l’Unione, utile anche a finanziare altri ambiti chiave come la transizione verde o la competitività industriale.

Il sistema non si limiterebbe alla tassazione. Bruegel suggerisce anche l’introduzione di un meccanismo di appalti comuni per evitare che ogni Paese favorisca esclusivamente i fornitori nazionali, penalizzando così la cooperazione europea e la qualità degli acquisti.

La proposta, firmata da economisti come Armin Steinbach, Zsolt Darvas, Roel Dom e Pascal Saint-Amans, apre una riflessione più ampia sul ruolo dell’Unione Europea: può continuare a delegare interamente la sicurezza agli Stati membri, oppure deve dotarsi di strumenti fiscali e strategici comuni per affrontare un mondo sempre più instabile? E soprattutto in tutto questo che fine ha fatto la diplomazia europea?

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