Il primo report di sostenibilità di Patagonia mostra progressi e limiti: materiali più “puliti”, ma emissioni ancora in aumento e una transizione più difficile del previsto.
Dopo dieci anni dall’introduzione dei suoi ambiziosi obiettivi ambientali, Patagonia ha pubblicato il suo primo report di sostenibilità, offrendo un’analisi trasparente del proprio percorso. A tre anni dal passaggio della proprietà a un trust e un’organizzazione no profit voluto dal fondatore Yvon Chouinard, il documento sintetizza i progressi realizzati e, allo stesso tempo, ammette apertamente ciò che non sta funzionando.
L’introduzione del report contiene infatti una frase destinata a segnare il dibattito sulla moda sostenibile: “Nothing we do is sustainable”, un’affermazione che ribalta il tono trionfalistico tipico del settore e invita a misurare la sostenibilità con criteri realistici. Nella lettera che accompagna il report, Chouinard riconosce che creare un modello alternativo a quello “estrattivo” dominante “non è mai stato così complicato”.
L’azienda ha costruito la sua immagine pubblica attorno all’impegno ambientale e all’idea di poter minimizzare l’impatto dei propri prodotti, ma il bilancio dei primi dieci anni di strategia verde è complesso. Il principale obiettivo fissato nel 2015 era raggiungere la neutralità climatica entro il 2040, una meta che richiede la riduzione delle emissioni del 10% ogni anno. L’ultimo esercizio fiscale mostra invece un movimento opposto: le emissioni sono cresciute del 2% rispetto all’anno precedente, raggiungendo 182.646 tonnellate di CO₂ equivalente.
Patagonia attribuisce l’aumento alla modifica del proprio mix di prodotti, oggi più orientato verso gli zaini, che utilizzano materiali con un’impronta di carbonio maggiore rispetto all’abbigliamento tecnico. L’azienda prevede tuttavia un nuovo calo delle emissioni il prossimo anno grazie ai programmi di supporto destinati ai fornitori, responsabili di oltre il 90% dell’impatto lungo la filiera.
La missione green di Patagonia e la sfida del vero riciclo
Se sul fronte della decarbonizzazione il percorso si rivela più accidentato del previsto, Patagonia mostra invece avanzamenti significativi nella transizione verso materiali definiti “preferenziali”, ossia riciclati o a minore impatto. Oggi l’84,1% delle materie prime utilizzate rientra in questa categoria, una quota quasi raddoppiata rispetto al 2018. Nel dettaglio, il 93% del poliestere e l’89% del nylon impiegati dall’azienda provengono da riciclo. Il risultato conferma la capacità di Patagonia di spingere il settore verso tecnologie e approcci più puliti, pur evidenziando un ostacolo ancora irrisolto: il riciclo vero e proprio dei rifiuti tessili.
Gran parte delle fibre riciclate utilizzate dall’industria proviene ancora da altri settori, soprattutto dall’imballaggio, mentre trasformare scarti tessili, spesso misti e contaminati, in materiali di qualità sufficiente per capi tecnici rimane complicato. Nel report Patagonia ammette che “scalare questo processo è stato difficile” e che la qualità delle fibre ottenute da rifiuti tessili puri è spesso insufficiente. Il passaggio a un riciclo circolare autentico richiederà dunque progressi tecnologici ancora lontani dalla maturità.
leggi anche
Perché le imprese italiane pagano l’energia più cara: il problema è anche nel “prezzo marginale”
L’eliminazione dei PFAS e la visione a lungo termine
Un’altra area che evidenzia risultati concreti riguarda la chimica dei materiali. Patagonia annuncia che “il 100% dei nuovi prodotti è fabbricato senza l’aggiunta intenzionale di PFAS”, le sostanze perfluoroalchiliche usate storicamente per garantire impermeabilità e oggi al centro di forti preoccupazioni per i rischi ambientali e sanitari. L’eliminazione di queste sostanze, complessa dal punto di vista tecnico e industriale, rappresenta un passo rilevante per un marchio che fa dell’outdoor una componente centrale della propria identità.
Nella sua lettera, Chouinard prende posizione anche sul ruolo del profitto, chiarendo che “non è mai stato l’obiettivo di Patagonia”, ma riconoscendo che le risorse generate dall’azienda sono strumenti decisivi per proteggere la natura. Il fondatore critica la logica del guadagno di breve periodo, che a suo avviso “sta distruggendo non solo il pianeta, ma anche le prospettive future di molte aziende”. E ricorda come la longevità delle imprese statunitensi sia diminuita drasticamente: da un’aspettativa di vita media di 30 anni alla nascita di Patagonia, a meno di 18 anni oggi.
Tra ambizione e realtà: perché il report segna uno spartiacque
Il primo report di sostenibilità di Patagonia non è un documento celebrativo, ma un esercizio di realismo che distingue nettamente l’azienda dal resto del settore. Patagonia chiude l’ultimo anno fiscale con 1,47 miliardi di dollari di fatturato, il 61% generato negli Stati Uniti, e un’operatività estesa in 45 Paesi con oltre cento negozi diretti. Numeri solidi che, tuttavia, non le impediscono di riconoscere i propri limiti. In un momento in cui molte aziende “green” rischiano il greenwashing, Patagonia propone una narrazione più scomoda ma più credibile: la sostenibilità, nel sistema economico attuale, non è mai pienamente raggiunta, ma rappresenta un cammino fatto di continui compromessi.
Il report segna dunque uno spartiacque. Non perché Patagonia si proclami un modello perfetto, ma perché afferma l’esatto contrario. E proprio questa onestà potrebbe diventare, ancora una volta, la sua innovazione più radicale.
© RIPRODUZIONE RISERVATA