Le big tech fanno ricorso all’Agenzia delle Entrate che vuole applicare l’IVA alla registrazione degli utenti. Via al processo tributario: è la prima volta che l’Italia non raggiunge un accordo.
Le società statunitensi Meta, X (ex Twitter) e LinkedIn hanno formalmente depositato ricorso contro una richiesta da parte del Fisco italiano che avrebbe chiesto il pagamento dell’IVA sulle iscrizioni gratuite dei loro utenti.
L’Agenzia delle Entrate italiana sostiene che la creazione di account gratuiti sui social equivalga in realtà a una transazione, in quanto gli utenti riceverebbero accesso ai servizi digitali fornendo in cambio i propri dati personali. Questa interpretazione trasforma il conferimento dei dati in un “baratto” soggetto a IVA, con l’obiettivo di ricondurre le big tech digitali sotto la disciplina tributaria vigente per le prestazioni di servizi a pagamento.
La somma complessiva richiesta supera il miliardo di euro. Nello specifico 887,6 milioni per Meta, 140 milioni per LinkedIn e 12,5 milioni per X.
Dopo la notifica inviata dall’Agenzia delle Entrate lo scorso marzo e la scadenza del termine di risposta fissato a metà luglio, le tre società hanno presentato appello presso il tribunale tributario di primo grado italiano. È la prima volta che l’Italia arriva a un contenzioso integrale con le grandi aziende tech su fronti fiscali di tale portata e, secondo fonti vicine al caso, ciò sarebbe accaduto perché oltre al valore economico, la contesa mira a stabilire un precedente interpretativo sull’offerta dei servizi digitali.
La disputa, sebbene relativa al fisco italiano, potrebbe infatti segnare una svolta nella disciplina fiscale applicata a tutte le piattaforme digitali in Europa, viste le potenziali implicazioni in materia di regolazione e tassazione su scala comunitaria.
L’Italia chiede l’IVA a Meta, LinkedIn e X: il no delle big tech
Tutte le società coinvolte hanno contestato fortemente l’impostazione dell’Agenzia delle Entrate. Meta ha espresso la sua posizione in un comunicato diffuso da Reuters: “Abbiamo collaborato pienamente con le autorità in merito ai nostri obblighi ai sensi della legislazione locale e dell’UE, ma siamo fortemente in disaccordo con l’idea che la fornitura di accesso alle piattaforme online agli utenti debba essere soggetta a IVA”.
LinkedIn ha scelto di non rilasciare dichiarazioni pubbliche in merito, mentre X non ha fornito risposta alle richieste. Quest’atteggiamento riflette la particolare delicatezza della controversia, che si inserisce in una fase di crescenti tensioni tra le istituzioni europee e le grandi piattaforme statunitensi, alimentate anche da recenti divergenze commerciali tra l’Unione Europea e l’amministrazione degli Stati Uniti.
Il nodo fiscale ruota attorno alla legittimità di considerare lo scambio “dati contro servizio” come una transazione soggetta a IVA. Nella primavera 2025, il Comitato IVA della Commissione Europea ha già manifestato riserve sulla posizione italiana, affermando di non ravvisare “una base giuridica chiara” per assimilare la fornitura gratuita dei servizi digitali social al baratto che rientra nell’ambito di applicazione dell’IVA secondo la normativa comunitaria.
Secondo vari esperti, qualora venisse accolta l’impostazione italiana, quasi tutti i fornitori di servizi digitali (compagnie aeree, supermercati, editori online, piattaforme di streaming, ecc.) potrebbero essere obbligati ad adeguarsi a un sistema tributario profondamente modificato, basato sull’identificazione dell’utente come “valuta” di scambio per i servizi ricevuti.
Il processo tributario e la risposta di Bruxelles
A oggi, la vicenda si è spostata in sede giudiziaria, avviando il primo vero e proprio processo tributario di massa per le big tech in Italia. La procedura prevede tre gradi di giudizio e può durare in media fino a 10 anni. Parallelamente, il governo italiano si prepara a sottoporre il caso all’attenzione della Commissione Europea, che dovrebbe valutare la questione in seno al Comitato IVA nella prossima seduta autunnale, con la possibilità di ricevere un’opinione ufficiale entro la primavera del 2026.
La risposta di Bruxelles sarà strategica. Se la Commissione dovesse bocciare la tesi italiana, secondo fonti vicine al dossier, il procedimento potrebbe essere sospeso e persino le eventuali indagini penali collegate potrebbero essere archiviate. Il rischio, dunque, è di innescare una revisione radicale dell’approccio europeo alla fiscalità digitale, esponendo il caso italiano a un effetto domino nell’interpretazione delle norme IVA su scala UE.
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