Il latte italiano parla sempre più francese. Per scelta strategica. Che è anche peggio

Mauro Bottarelli

31 Luglio 2022 - 18:00

Dopo 80 anni, il gruppo bresciano Ambrosi vende a Lactalis, ultimo shopping transalpino nel settore dopo Galbani, Cademartori, Invernizzi, Parmalat e Nuova Castelli. Forse a Roma urge qualche domanda

Il latte italiano parla sempre più francese. Per scelta strategica. Che è anche peggio

Dopo 80 anni di storia e di successi che hanno permesso al Gruppo Ambrosi di sviluppare le vendite dei propri formaggi in Italia e nel mondo - con una presenza in oltre 50 Paesi -, abbiamo scelto un’altra impresa familiare, affidando a Lactalis lo sviluppo futuro dei formaggi Ambrosi. Questa scelta rappresenta la migliore garanzia di successo per i dipendenti del nostro gruppo e per i nostri prodotti. Parole e musica di Giuseppe Ambrosi, presidente e amministratore delegato della Ambrosi S.p.A, da qualche giorno divenuta francese. .

Ma il gruppo di Castenedolo non aveva bisogno del gigante transalpino Lactalis perché con l’acqua alla gola. Anzi. Ambrosi, infatti, ha chiuso il 2021 con un fatturato di oltre 418,5 milioni di euro, un +5,7% su base annua e con utili per 2,5 milioni, margine operativo lordo a quota 14 milioni e investimenti per 15 milioni nei prossimi anni, fra i quali la realizzazione di un nuovo magazzino. Insomma, stiamo parlando di un’azienda che nell’Italia del post-Covid investe in CapEx! E che anche all’estero sa farsi rispettare, dalla Francia - che garantisce il 48% del fatturato complessivo con la Ambrosi Emmi France - fino agli Stati Uniti.

E Lactalis non si è fatta sfuggire l’affare, rilevando la totalità del gruppo. Il quale porta in dote alla multinazionale francese due eccellenze italiane come Parmigiano Reggiano e Grana Padano, pronte a raggiungere ogni angolo del mondo grazie alla straordinaria rete commerciale internazionale. E quando Lactalis varca la frontiera, sia essa il Monginevro o Ventimiglia, va a colpo sicuro. Visto che lo shopping di aziende italiane annovera nomi come Galbani, Cademartori, Invernizzi, Parmalat e infine Nuova Castelli, produttrice e distributrice di prodotti della tradizione casearia italiana come Parmigiano, mozzarella di bufala e gorgonzola e a cui fanno riferimento marchi come Castelli, Mandara e Alival.

Ma Ambrosi non vende perché disperata, protestata, indebitata. Al contrario, perché sana, appetibile e in grado di competere nel mondo a colpi di eccellenze. Perché allora vende? Questa scelta rappresenta la migliore garanzia di successo per i dipendenti del nostro gruppo e per i nostri prodotti, una frase che da sola si configura come atto di condanna non solo di un intero sistema ma di un Paese. E della classe politica che negli anni ha reso possibile la spogliazione di un patrimonio. Nessuno sciovinismo commerciale o sovranismo del brand, se i francesi garantiranno continuità industriale, investimenti e livelli occupazionali, inutile sottolineare che sono i benvenuti. Busta paga non olet.

Ma c’è qualcosa di fondo che appare ormai irreversibile. Negli anni. Lactalis è divenuto il primo acquirente del latte italiano e grazie agli ingenti quantitativi trattati (oltre il 10% della materia prima nazionale), i contratti che il gigante francese stipula con gli allevatori tramite Italatte valgono ormai come prezzo di riferimento del latte prodotto nel Nord Italia, attualmente a 57 centesimi al litro. Ecco perché Ambrosi vende: perché in Italia, il prezzo benchmark del latte è determinato da un soggetto francese. E questo non è frutto di una strategia aggressiva da vulture fund, bensì una lenta penetrazione resa possibile da una classe politica e imprenditoriale incapace. E qualche svendita travestita da privatizzazione e liberalizzazione di troppo.

Se esiste un bene primario, quasi romantico e patriottico nel suo essere indispensabile e quotidiano, questo è il latte. E in Italia non manca la tradizione, né le stalle, né le vacche. Cosa manca, allora? Forse il fatto che, passati i blocchi stradali in nome della mucca Ercolina e contro le multe per le quote latte dell’Ue. in Italia nessuno più si è occupato del tema. Occorrono le cicliche proteste con i bidoni di oro bianco gettati per strada, stante il prezzo che non garantisce di campare a chi alleva e munge, per finire sui giornali e nelle dichiarazioni dei politici. Poi, ecco che l’Italia torna a fare ciò che le piace di più: vantarsi per il vestito, infischiandosene dello stato di salute del corpo che lo indossa. Perché in tv vanno i gli chef stellati con i talent e a far notizia sono i profeti del cibo inteso come griffe, spalleggiati dai loro sacerdoti officianti, gli influencer e i blogger. Gente che non si sporca le scarpe nelle stalle.

I contadini, invece, vanno tenuti nascosti. O, al massimo, mostrati come specie in via di estinzione, materiale da documentario su RaiTre o film di Ermanno Olmi. In Francia, invece, l’agricoltura è religione. E proprio per questo, business. Enorme. Nel 2021, Lactalis ha generato un turn over di 18,5 miliardi di euro, di cui oltre il 50% realizzato attraverso la vendita proprio di latte e formaggi e alla luce di circa 80mila collaboratori in 94 Paesi nel mondo, di cui 32mila in Europa. E 5mila in Italia.

Attenzione, però. Perché in autunno oltre alla crisi del gas, le sanzioni alla Russia ci regaleranno anche quella dei fertilizzanti. Basti pensare che a causa del caro-energia, una multinazionale come BASF fermerà la produzione di un componente base come l’ammoniaca. A quel punto, forse torneranno in strada i trattori e contadini e allevatori perderanno la loro proverbiale pazienza. Come avviene da settimane in Olanda. E allora la politica batterà un colpo. Magari a pochi giorni dal voto. Ma un Paese che non ha rispetto del latte, farebbe meglio a non parlare di sovranità. Perché significa abdicare alla propria anima. Con cui si può anche campare. E più che egregiamente, come dimostrano i francesi.

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