Dai Gremlins alla Commedia, da Nietzsche a Google Maps: l’IA è solo uno specchio. Il vero rischio? Che l’uomo smetta di farsi domande e deleghi anche il pensiero alle macchine.
Parlare di Intelligenza Artificiale è oggi praticamente obbligatorio, tanto che le molte cose intelligenti e istruttive che si sentono e si leggono su un argomento così vasto e complesso sono surclassate per numero dalle corbellerie e banalità che si moltiplicano come i Gremlins dell’omonimo film del 1984. Il romanzo distopico Bruciare tutto (2023), di Walter Siti, con il suo approccio umanistico all’IA, è un esempio delle prime, mentre le semplificazioni che spesso imperversano sia sui vecchi che sui nuovi media sono una plastica rappresentazione delle seconde.
Di certo, parlare dell’IA significa in fondo parlare dell’uomo. Perché nessuna tecnologia, nemmeno la più sofisticata, è mai soltanto un insieme di codici o algoritmi: è sempre lo specchio dei nostri desideri, delle nostre paure, dei nostri limiti e delle nostre speranze. E non stupisce che, nell’epoca in cui l’IA sta rapidamente permeando ogni aspetto della nostra vita, sorgano entusiasmi e timori che affondano radici antiche, nelle domande che filosofi e poeti si pongono da millenni: chi siamo? Che cosa possiamo diventare? Qual è il nostro destino? Interrogare i classici del pensiero e della letteratura, in questo senso, diventa doveroso.
Nietzsche, ad esempio, avrebbe probabilmente sorriso di fronte a certe paure. Lui che si è sempre strenuamente battuto affinché l’uomo si realizzasse in tutte le sue potenzialità (“Diventa ciò che sei!”), direbbe che se per realizzare lo scopo dobbiamo usare l’IA – per sbarazzarci delle noie quotidiane, del lavoro ripetitivo, della contabilità o delle email infinite – nella cosa non dovremmo vedere nulla di strano. Sarebbe quasi uno slancio dionisiaco: lasciare alla macchina le scartoffie, per dedicarsi a ballare, a creare, a guardare il sole tramontare. [...]
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