In cosa consiste il voto maggiorato e perché le aziende ricorrono a questo strumento?

Claudia Cervi

9 Agosto 2025 - 10:00

Cos’è e come funziona il voto maggiorato e perché viene scelto da molte aziende italiane per rafforzare il controllo nel lungo periodo senza aumentare il capitale.

In cosa consiste il voto maggiorato e perché le aziende ricorrono a questo strumento?

Il voto maggiorato è uno strumento controverso, ma sempre più utilizzato per ridefinire gli equilibri tra capitale e potere. Colossi come Stellantis, Enel e TIM lo hanno già adottato o stanno valutando meccanismi simili per rafforzare il controllo dei soci storici, anche in presenza di partecipazioni di minoranza.

Ma dietro al voto maggiorato non c’è solo un tecnicismo giuridico, c’è una visione ben precisa di governance, strategia industriale e persino nazionalismo economico.

Vediamo nel dettaglio come funziona esattamente questo meccanismo e quali sono le conseguenze per imprese, investitori e mercato.

Cos’è il voto maggiorato e come funziona

Il voto maggiorato è un meccanismo che permette ad alcuni azionisti di contare di più nelle decisioni societarie, a parità di azioni possedute. In sostanza, chi resta fedele all’azienda e mantiene le proprie azioni per un periodo prolungato può ottenere più voti in assemblea. L’idea è premiare la stabilità e scoraggiare chi entra solo per speculare nel breve.

Questo strumento è stato introdotto in Italia nel 2014 con uno scopo preciso: premiare gli azionisti fedeli, dando loro due voti per ogni azione mantenuta per almeno due anni. Ma la misura, pur innovativa per il nostro ordinamento, si è scontrata fin da subito con un limite. In confronto ad altri Paesi europei, il sistema italiano risultava meno competitivo. Non a caso, molte società di capitali hanno scelto di trasferire la sede all’estero, cercando regole più flessibili e ambienti più adatti a sostenere una governance stabile.

Le cose, però, sono cambiate con l’approvazione definitiva del DDL Capitali, il 27 febbraio 2024. La nuova normativa ha reso questo strumento molto più flessibile e oggi gli statuti societari possono prevedere una crescita graduale dei voti, con un ulteriore voto ogni anno, oltre ai due già previsti, fino a un massimo di dieci voti per azione.

Una riforma che guarda al lungo periodo, pensata per premiare chi investe con pazienza e visione. Allo stesso tempo, però, chi non condivide la modifica statutaria ha il diritto di recedere e vendere le proprie azioni, uscendo dalla società.

Perché le aziende scelgono il voto maggiorato

La ragione principale è che con il voto maggiorato si può mantenere il controllo dell’azienda senza dover possedere la maggioranza del capitale. In pratica, si aumenta il peso in assemblea senza dover comprare nuove azioni.

Un esempio emblematico è Stellantis. La holding Exor, che fa capo alla famiglia Agnelli-Elkann, possiede solo il 14% del capitale, ma grazie al voto maggiorato detiene oltre il 26% dei diritti di voto. Un vantaggio enorme, che consente di restare al comando anche in una società globale con tanti soci.

È un modo efficace per tutelare chi ha costruito l’impresa e vuole continuare a orientarne le scelte strategiche, soprattutto in un contesto competitivo come quello internazionale, dove il rischio di perdere il controllo può essere concreto anche con quote importanti.

Vantaggi e rischi del voto maggiorato

I sostenitori lo vedono come uno strumento utile per garantire stabilità all’azionariato, proteggere le imprese dalle scalate ostili e favorire la visione industriale di lungo termine.

In mercati spesso dominati da hedge fund e investitori di breve periodo, un premio alla fedeltà può fare la differenza nella qualità della governance.

Ma c’è anche un rovescio della medaglia: il rischio di distorcere la rappresentanza. Quando il potere di voto si concentra in mani che non detengono una quota equivalente di capitale, si crea un divario tra chi rischia il proprio denaro e chi prende le decisioni.

In questi casi si parla di “paradosso della governance distorta”. Una distorsione che può scoraggiare gli investitori istituzionali, sempre più orientati ai principi di trasparenza e proporzionalità del modello “un’azione, un voto”.

I casi di Enel e TIM

Nel 2024 Enel ha modificato il proprio statuto per introdurre il voto maggiorato, nonostante le perplessità sollevate da alcuni fondi esteri.

TIM, nel delicato dossier relativo alla cessione della rete NetCo, ha valutato il rafforzamento dei diritti del socio di controllo come parte del piano di ristrutturazione e rilancio.

Anche diverse PMI quotate su Euronext Growth Milan stanno considerando l’adozione del meccanismo, soprattutto dopo aperture del capitale a investitori esterni. Il voto maggiorato, in questo contesto, viene visto come uno strumento per difendere l’identità imprenditoriale senza compromettere l’accesso a nuovi capitali.

Voto maggiorato e altri strumenti di controllo: differenze

Nel panorama del diritto societario italiano, il voto maggiorato si distingue da altre forme di controllo previste dalla legge.

A differenza delle azioni di risparmio o privilegiate, che offrono vantaggi patrimoniali ma limitano il diritto di voto, il voto maggiorato non crea nuove classi di azioni. È un meccanismo trasparente e progressivo che premia la stabilità della proprietà, senza alterare il profilo economico dei titoli.

Rispetto ai patti parasociali, che si basano su accordi privati tra soci e spesso sfuggono alla trasparenza del mercato, il voto maggiorato è invece statutario e pubblico, quindi più leggibile per gli investitori.

Diverso anche dal Golden Power, che è uno strumento discrezionale dello Stato per proteggere asset strategici, il voto maggiorato è un meccanismo privatistico e preventivo, concepito per rafforzare il controllo interno in maniera compatibile con le logiche del mercato.

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