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di JEBO

Analisi critica dello smart working: la nascita e lo sviluppo

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1 agosto 2022

Analisi critica dello smart working: la nascita e lo sviluppo

Smart working: dall’inizio della pandemia a oggi. Come cambia il mondo del lavoro e perché il lavoro agile può essere la soluzione per ridurre stress e consumi.

Durante lo scorso decennio, si è iniziato a vociferare di un fantomatico “smart working”, conosciuto anche come “lavoro agile”, ma è soltanto con l’avvento della pandemia causata dal Covid-19 che abbiamo assistito a un’impennata - forzata - dei lavoratori da remoto.

Negli ultimi due anni chiunque ha avuto modo di interfacciarsi con strumenti o piattaforme che consentono la comunicazione da remoto (Google Meet, Zoom, Microsoft Teams, ecc.) - chi per lavoro, chi per istruzione, o semplicemente per parlare con parenti o conoscenti distanti da noi. Nonostante ciò, intorno al lavoro agile aleggia ancora un alone di mistero: lo smart working porta effettivamente dei vantaggi in termini di produttività, sostenibilità e benessere dell’individuo? Significa semplicemente lavorare da casa, anziché in ufficio?

Nel 2005, San Pellegrino apre la strada al lavoro agile tramite il progetto “Primavera” attraverso cui sperimenta insieme a due collaboratori il lavoro a distanza; ma è soltanto nel 2017, con la legge 81, che il termine diviene ufficialmente riconosciuto nell’ambiente giuslavoristico.

Secondo la definizione del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali: «il lavoro agile (o smart working) è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività».

Dunque, non soltanto stiamo assistendo a una modifica degli ambienti in cui i dipendenti salariati operano, ma a un vero e proprio cambio di paradigma dove il tempo non è più una delle principali misure con cui si determina l’impegno di un impiegato.

Flessibilità, autonomia, libertà: queste parole fanno da padrone al mondo del lavoro da remoto. Ma è realmente così? Per quanto staccarsi dall’orario e dal luogo di lavoro garantisca innumerevoli benefici, è anche vero che abbiamo assistito a situazioni dove si è reso più complicato porre dei confini fra lavoro e vita privata. Portarsi il lavoro in casa può significare in certi casi lavorare di più e in maniera scostante, causando stress e malessere all’individuo, il quale si trova privato della routine e dell’equilibrio a cui si era precedentemente abituato.

Senza dubbio molte di queste situazioni sono nate in un contesto pandemico dove non vi era reale alternativa, ma in presenza di scelta possiamo osservare come molte persone - forti della fiducia e dell’indipendenza concessa - risultino più produttive e felici poiché in grado di organizzare il proprio lavoro in modo autonomo e secondo le proprie necessità, a patto che vengano poi raggiunti gli obiettivi concordati con il datore di lavoro.

Inoltre, questo “cambiamento forzato” ci ha portato ad affrontare una serie di problematiche che hanno evidenziato alcune lacune riguardanti la disponibilità di connessione a internet adeguata e una formazione informatica che permetta di lavorare fluidamente dalla propria abitazione.

L’Osservatorio sulle Comunicazioni 2021 dell’Agcom evidenzia come oltre il 75% delle linee fisse raggiunga a oggi una velocità superiore ai 30 Mbit/s, sufficiente a sostenere videochiamate di buona qualità; d’altro canto però, emerge dal Rapporto Annuale 2022 sul lavoro Istat come il 54.2% di chi ha lavorato da casa durante l’emergenza sanitaria abbia incontrato almeno una difficoltà, come la sovrapposizione con attività familiari, l’inadeguatezza della dotazione tecnologica e la mancanza di spazio in casa.

Rispetto al resto d’Europa, l’Italia non figura bene, con il 15.5% di individui che lavorano abitualmente da casa rispetto alla media dell’Eurozona che sfiora il 25%. Complessivamente l’opinione pubblica dei cittadini italiani è costituita da un 48.2% che giudica positivamente l’esperienza dello smart working e un 9.2% che la valuta con indifferenza.

Uno degli argomenti trainanti a favore del lavoro da remoto è la maggior sostenibilità che esso offre a livello ambientale ed economico, forse prima tra tutte la diminuzione degli spostamenti con conseguente riduzione delle emissioni, seguita a ruota da un minor utilizzo di spazi aziendali che, oltre a impattare positivamente sull’ambiente, consente un risparmio notevole per le imprese.

La possibilità di lavorare completamente o parzialmente da remoto svincola il lavoratore dalla necessità di abitare in prossimità della sede aziendale, questo non soltanto consentirebbe uno sgonfiamento dei prezzi nel mercato immobiliare inflazionato di metropoli italiane come Roma e Milano, ma permetterebbe anche la rinascita dei borghi italiani che da decenni assistono a una fuga di cervelli. Tutto ciò non può che beneficiare il lavoratore agile, conferendogli una maggiore libertà e la possibilità di risiedere in zone dove il suo denaro ha un potere d’acquisto maggiore.

L’Iea (International Energy Agency) stima che per tutti quegli individui che percorrono più di 6km in auto per raggiungere il proprio luogo di lavoro sia più sostenibile lavorare da casa, stimando che circa 1/5 dei lavori globali potrebbe essere svolto da remoto. Ma flessibilità e libertà sono un’arma a doppio taglio: trasferirsi in luoghi più lontani annullerebbe i benefici ambientali nel momento in cui è necessario recarsi in ufficio alcuni giorni la settimana, rispettando quindi la cosiddetta modalità ibrida che prende sempre più piede.

Compatibilmente, l’UK Carbon Trust ha dimostrato con uno studio del 2021 come alcuni lavoratori tedeschi da remoto producessero maggiori emissioni durante i mesi più freddi dell’anno rispetto ai loro colleghi che si recavano al lavoro con i mezzi pubblici, questo a causa di abitazioni meno efficienti e dunque più inquinanti.

Allo stesso modo, la possibilità di muoversi mentre si lavora potrebbe spingere alcuni soggetti a intraprendere viaggi a lungo raggio, aumentando sensibilmente il loro impatto ecologico. Quindi sì, spesso e volentieri lo smart working è più ecosostenibile, ma è importante impegnarsi a costruire residenze efficienti e promuovere la mobilità sostenibile.

L’ultimo aspetto da considerare, ma non per importanza, è il benessere che uno stile di vita più flessibile può apportare a un individuo.

Nel 2021, l’Inail ha rilasciato un rapporto in cui si analizza l’impatto del lavoro agile sul benessere e le condizioni di lavoro dei soggetti coinvolti, dal quale emerge che l’87% dei lavoratori si ritiene molto (30%) o completamente (57%) soddisfatto della modalità di lavoro da remoto, con una soddisfazione riguardo al lavoro svolto che rimane però invariata rispetto alla presenza in ufficio e una leggera diminuzione del coinvolgimento percepito.

La maggioranza riporta che il lavoro da casa ha migliorato il proprio equilibrio tra vita lavorativa e privata, migliorando la prima e semplificando la seconda. Si può osservare anche come vi è un generale incremento di salute generale del personale e una diminuzione del disagio psicofisico nonostante lo stato di emergenza nazionale presente durante il periodo in cui lo studio è stato eseguito.

Per concludere, un futuro dove il benessere dei lavoratori è maggiore, condito da una maggior produttività e un impatto ambientale inferiore, è possibile, a patto che si sviluppino le infrastrutture adatte ad accogliere questo cambiamento, non forzando gli individui né in una direzione, né nell’altra.

E tu, cosa ne pensi dello smart working? Parlaci della tua esperienza!

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JEBO l'associazione di eccellenze gestita da studenti dell’Università di Bologna.

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