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di Glauco Maggi

Vuoi votare il sindaco di New York? Basterà che ci vivi per 30 giorni

Glauco Maggi

30 novembre 2021

Vuoi votare il sindaco di New York? Basterà che ci vivi per 30 giorni

Chi può eleggere il sindaco di New York? Quali sono le attuali proposte di legge in merito e gli eventuali dubbi al riguardo? Analizziamolo insieme.

Una rivoluzione ai seggi è in vista per la Grande Mela. A New York ci sono oltre 800mila persone che hanno la “green card”, il documento rilasciato dal governo federale che dà il diritto di risiedere permanentemente negli Stati Uniti, o che dispongono di un diritto temporaneo di viverci per studiare e lavorare. Le due comunità straniere più rappresentate sono i 130mila che vengono dalla Repubblica Dominicana e i 117.500 dalla Cina, ma tutto il mondo è presente in questa categoria di “non cittadini” legali che passeranno presto di grado, in un “limbo” destinato a scatenare battaglie legali che finiranno con l’approdare alla Corte Suprema.

Grazie a questa misura, persino gli stranieri che sono residenti da 30 giorni in città, legalmente, potranno votare per il sindaco, per tutti i consiglieri comunali, e per le altre cariche municipali: per esempio, per i presidenti dei cinque Boroughs (Manhattan, The Bronx, Queens, Staten Island e Brooklyn), e per i responsabili degli uffici giudiziari o amministrativi, come il Controllore dei conti o l’Avvocato della cittadinanza.

Da tempo la proposta di legge era nei cassetti del municipio, e lo staff del Consiglio Legale ha finalmente dato il via libera al voto (previsto il 9 dicembre), motivandolo con l’assenza di leggi federali o statali che impediscono espressamente a New York City di espandere il diritto di votare nelle elezioni locali. Gli stessi legali hanno però ammesso che la decisione potrebbe essere impugnata in tribunale dagli oppositori. Anzi, questa è una certezza secondo Ron Hayduk, professore di politica alla San Francisco State University e autore del libro “Democrazia per tutti: ripristinare i diritti di voto per gli immigrati negli USA”, che al New York Times ha detto: “Visto che ci sono già sfide legali in altri posti, come il Vermont, e per il fatto che l’immigrazione è un problema tanto caldo nel paese, non posso immaginare che non ci sarà una battaglia a New York”.

Il Consiglio (Assembly) di New York City è composto da 51 membri di cui la quasi totalità sono Democratici, quindi il passaggio della nuova normativa è già segnato.

I proponenti Democratici hanno infatti una maggioranza a prova di veto (oltre i 34 seggi), che peraltro il sindaco Bill de Blasio ha già anticipato che non eserciterà, anche se sarebbe una sua prerogativa. Commentando il voto imminente, de Blasio non ha appoggiato esplicitamente la misura, dicendo che occorre un voto del parlamento statale. Ha espresso insomma un fondato dubbio sulla sua legalità, e ha aggiunto di essere preoccupato perché l’effetto di un ampliamento del diritto di voto secondo questa formula sarebbe quello di “sminuire il valore della cittadinanza americana”. Wow. Espressa da un sindaco uscente e non rieleggibile, che negli otto anni dei due mandati ha protetto gli immigrati senza documenti dando alla città lo status di “santuario legale municipale” contro la legge immigratoria federale, la critica è ridicola. E patetica. De Blasio ha infatti avviato settimane fa la pratica per partecipare come candidato Democratico alle prossime elezioni per la carica di governatore dello Stato di New York, e crede di potersi dare con qualche peloso distinguo una patina da politico di buon senso. Vuole apparire rispettoso dei dettami legali-costituzionali, ma solo perché l’elettorato dello Stato è molto più ampio e articolato di quello metropolitano ultraliberal che lo ha mandato due volte a City Hall. La sua uscita, insomma, è puramente politica, ma non lo porterà più vicino al successo elettorale da governatore di quanto gli successe nella corsa alla Casa Bianca nel 2020: allora non andò mai oltre l’1-2 per cento alle primarie del partito DEM.

Che la manovra municipale di New York sia parte di un disegno politico del partito democratico a livello nazionale lo ha affermato senza reticenze il consigliere comunale DEM, primo firmatario della legge, Yadanis Rodriguez: “È importante per il partito Democratico guardare a New York”, ha detto Rodriguez, “e vedere che, nel momento in cui i diritti dei votanti continuano ad essere attaccati, noi stiamo espandendo la partecipazione al voto”. La polemica contro le leggi passate dai parlamenti a maggioranza repubblicana in diversi Stati, dalla Georgia all’Arizona al Texas, è usata da tempo come argomento di propaganda. I Democratici accusano il GOP di reprimere il diritto di votare degli afro-americani e degli ispanici, ma è vero il contrario, stando ai numeri: i contenuti delle riforme votate dai parlamenti statali, quindi dagli elettori, puntano infatti alla difesa della correttezza e integrità delle elezioni e, per esempio, richiedono un documento di identità con foto ai seggi. Esempi delle conseguenze tra la gente? Confermano che gli elettori delle “minoranze” non sono “minorati” ma cittadini normali che non sono e non si sentono penalizzati dalla regola del riconoscimento, la stessa richiesta che viene fatta loro se entrano in banca o se guidano l’auto.

I ricercatori di J-PAL North America (Abdul Latif Jameel Poverty Action Lab, con sede al MIT di Boston, laboratorio che studia le questioni critiche nella lotta alla povertà e non simpatizza di sicuro per i conservatori) hanno scoperto che il requisito del documento di identità con foto “non ha avuto un impatto negativo sull’affluenza alle urne e potrebbero averla in effetti aumentata”. Dalla ricerca del 2012, condotta in Virginia e Tennessee tra gli elettori a bassa propensione a votare, escludendo chi aveva votato alle elezioni generali del 2008 e del 2010, l’affluenza è aumentata in Virginia di 0,9 punti percentuali al 40,9% e in Tennessee di 1,5 percentuali al 33,4%.

La resistenza dei Repubblicani contro l’allargamento del diritto a votare ai “non cittadini” propugnato dai Democratici non si basa solo su motivi politici, di principio e ideali. Il permesso di votare per il sindaco nello stesso seggio in cui, contemporaneamente, si potrebbero svolgere le elezioni per i candidati al Congresso o alla Casa Bianca, creerebbe una situazione di possibile confusione e di errori materiali, anche senza voler tenere conto della malafede di scrutinatori ed elettori. Infatti, ai “residenti non cittadini” andrebbe data una scheda speciale con le sole candidature municipali, mentre ai “cittadini” ne andrebbe una completa di tutti i candidati. L’America non ha bisogno che la fiducia nell’integrità elettorale venga minata da leggi di comodo a favore di “non cittadini”, con l’aggiunta di procedure oggettivamente poco affidabili tecnicamente, e quindi esposte al sospetto. Ricordiamo che questa integrità, bene prezioso nel sistema democratico, è ancora scossa dalle roventi polemiche alimentate, per le loro sconfitte ai seggi, dalla mancata governatrice Democratica della Georgia Stacey Yvonne Abrams nel 2018, e dal mancato presidente degli Stati Uniti Repubblicano Donald Trump nel 2020: entrambi non hanno ancora oggi concesso di essere stati battuti e lamentano, assurdamente, di essere stati vittime di frodi ed ingiustizie determinanti.

Che cosa dice la legge americana, in generale, su chi ha diritto di votare? Nel 1996, il Congresso ha introdotto una legge che proibisce ai “non cittadini” di votare nelle elezioni federali, ossia per Camera, Senato e Casa Bianca. Ma questa legge non ha menzionato le elezioni statali e municipali. Due Stati, l’Arizona e il Nord Dakota, hanno le loro Costituzioni statali che specificano che i “non cittadini” non possono partecipare alle elezioni statali e comunali, mentre nessuno degli altri 48 Stati esplicitamente permette ai “non cittadini” di votare nelle elezioni statali e locali. Ci sono 14 municipalità nel Paese che consentono ai non cittadini di votare alle elezioni locali: 11 in Maryland, 2 in Vermont e San Francisco in California.

L’elezione del sindaco a New York, la metropoli più importante d’America, è un fatto al 100 per cento politico, e va trattata con serietà e rispetto. “Qualcuno che ha vissuto qui per 30 giorni avrà voce in capitolo per come vanno alzate le tasse, e per come trattare il nostro debito cittadino e gli impegni di lungo termine per i pensionati”, ha detto Joseph Borelli, consigliere Repubblicano del borough di Staten Island che si oppone alla legge. “Queste sono cose su cui le persone che sono qui temporaneamente non dovrebbero avere il diritto di esercitare alcuna influenza”.

Comunque, una domanda sorge spontanea: visto che chi ha la green card ha il diritto di diventare automaticamente cittadino se lo vuole, perché non segue la normale trafila dei naturalizzandi americani (io sono tra questi) e lo diventa? Così ha tutti i diritti, compreso quello di votare, e insieme tutti i doveri.

Glauco Maggi

Giornalista dal 1978, vive a New York dal 2000 ed è l'occhio e la penna italiana in fatto di politica, finanza ed economia americana per varie testate nazionali

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