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di Glauco Maggi

United Airlines: 50% dei nostri piloti saranno di colore o donne

Glauco Maggi

12 aprile 2021

United Airlines: 50% dei nostri piloti saranno di colore o donne

Bisogna partire da lontano per capire dove siamo arrivati ora in materia di razzismo, di equità, di eguaglianza e di diversity, ma la sublimazione della “affirmative action” in qualcosa di pericoloso, ben oltre il paradossale, ha prodotto il caso della United Airlines. Ne parlerò alla fine.

La “Affirmative Action” descrive le politiche del governo e delle aziende per aumentare la presenza di individui appartenenti a minoranze - di genere, sessualità, razze, etnie, religioni - nei diversi ambienti, dal mondo del lavoro a quello dell’istruzione, in cui queste categorie sono numericamente sotto-rappresentate rispetto al loro peso nella popolazione in generale.

Questi sforzi sono, a fin di bene, originati da angherie, ingiustizie ed esclusioni pesanti di un passato più o meno recente. E se le discriminazioni perdurano, è giusto che la società moderna e aperta si impegni ad eliminarle.

Negli USA, gli afro-americani sono stati storicamente i più perseguitati: prima come schiavi nelle piantagioni, e poi con la segregazione sociale e le odiose e sanguinose azioni dei suprematisti bianchi del secolo scorso. Non sono stati i soli razzialmente repressi, peraltro. Contro i cinesi impiegati a centinaia di migliaia nella costruzione delle ferrovie, nel 1882 il Congresso passò, su pressione dei sindacati, il Chinese Exclusion Act: quella legge proibiva l’ingresso dei lavoratori cinesi perché facevano la concorrenza ai locali. Solo nel 1943 una nuova norma riaprì loro le porte. Intanto, fra il 1892 e il 1924, da Ellis Island, “dogana umana” nella baia di New York, sono transitati 12 milioni di immigrati tedeschi, scandinavi, irlandesi, italiani, ebrei, est europei. Poi è stato il turno dei rifugiati dalla Corea, dal Vietnam e dall’Africa, per non parlare degli americani del Centro e Sud America, un flusso costante dalla annessione del Texas nel 1845.

Gli episodi bui del processo di assorbimento e di integrazione degli immigrati, spesso umiliati dal razzismo di chi era arrivato prima, sono parte della storia americana. In parallelo, s’è sviluppata la rivoluzione nei costumi sociali e nei diritti civili: le donne possono votare da 100 anni, e da quasi mezzo secolo (1865) la legge USA riconosce il diritto di votare a tutti, senza limiti di razza.

Ancora più vicine a noi sono le conquiste civili del movimento LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e transessuali): le nozze omosessuali sono oggi la normalità, ma se pensiamo che Obama era contrario quando fece la campagna per diventare presidente, nel 2008, ci rendiamo conto della forte accelerazione nella corsa a eliminare barriere, almeno quelle legali-formali, degli ultimi 15 anni.

Traguardo raggiunto? Il caso della United Airlines

L’accettazione di tutte le forme di diversità nel modo di sentire e di agire della gente è un processo non lineare: ci sono razzisti e omofobi tra i bianchi, come tra la gente religiosa di colore si trovano le percentuali più alte di opposizione alle nozze gay, mentre sono più numerosi i neri dei bianchi tra i protagonisti di azioni violente contro gli asiatici. Eppure, la narrazione che domina sulla stampa mainstream è di una nazione ancora sistematicamente razzista, in cui i bianchi sono i soli designati colpevoli. E siccome il fine di ciò è assecondare la linea politica identitaria dei Democratici, c’è uno strumento di lotta, l’ “inclusione”.

E’ il newspeak orwelliano delle persone politicamente corrette, i cosiddetti “woke”, termine traducibile con “avvertiti, consci delle ingiustizie sociali”. E indaffarati a trovarne di sempre nuove, e a porvi rimedio: statue da abbattere e “cancel culture”. Così Martin Luther King, con il suo sogno (“I have a dream”) di vivere in un Paese in cui una persona è libera e valutata per quello che fa, non per il suo colore della pelle,è finito in soffitta. La sua visione di giustizia sociale poggiava sulla responsabilità individuale dei singoli di eccellere, sfruttando le leggi che finalmente danno uguali opportunità di partenza a tutti, nelle scuole e al lavoro. Non più neri, bianchi, marroni o gialli, ma americani.

Il concetto, idealmente perfetto, poteva realizzarsi dall’oggi al domani una volta approvata la legge dei diritti civili del 1965? C’è chi dice di sì, anche tra gli afro-americani come l’economista e scrittore (30 libri pubblicati) Thomas Sowell. Anzi, la sua esperienza di vita dice di più. Nato nel 1930 in Sud Carolina, orfano presto di padre e allevato a casa di vecchie zie ad Harlem, dalle scuole pubbliche seppe salire fino al diploma alla Columbia nel 1959, passando per l’esperienza del marine in Corea.

Se l’esperienza di Sowell è il sogno di Luther King realizzato, è innegabile che la popolazione nera sia stata prigioniera per secoli in una gabbia politica e culturale oppressiva. I liberal e i Democratici hanno pensato che la chiave per aprire la gabbia fosse il dirigismo statale e sociale nella assegnazione delle posizioni di studio e di lavoro, e così prese forma la citata Affirmative Action. Nel 2003 la Corte Suprema ha anche emesso un verdetto contraddittorio che approvava, pur ammettendo la incostituzionalità delle “quote” su base razziale, il criterio di privilegiare candidati di colore. Il caso riguardava una studentessa bianca che aveva fatto causa all’Università del Michigan che l’aveva esclusa.

Da allora, l’Affirmative Action ne ha fatto di strada. Nel settembre dell’anno scorso aveva già fatto un certo scalpore l’idea della Accademia degli Oscar di fissare quote per gli attori dei film che possono vincere il premio: “Almeno un attore nel ruolo leader e nel ruolo di supporto deve essere di un gruppo razziale o etnico sotto-rappresentato: asiatico, ispanico/latino, nero/afroamericano, indigeno/native american/ medio-orientale/nord africano, nativo hawaiano o di un’isola del pacifico, o di altra razza o etnia”. Stesse prescrizioni sono estese a registi, troupe, eccetera. Poco male, si tratta di spettacolo.

In dicembre era stata la volta della Borsa newyorkese NASDAQ di presentare un piano che impone alle aziende che vogliono quotarsi di avere almeno una donna o una persona di colore nel consiglio di amministrazione. Qui è un po’ più grave, non solo perché si parla di imprese e di investimenti, ma perché la misura andrebbe contro il codice federale (42 U.S.C.) che vieta le quote razziali.

Dove si passa il segno, per me, è nel programma di assunzioni annunciato dalla United Airlines per i suoi piloti. “Il nostro equipaggio in volo deve rispecchiare i diversi gruppi di persone a bordo dei nostri aeroplani ogni giorno. Ecco perché pianifichiamo che il 50% dei 5000 piloti che addestreremo nel prossimo decennio siano donne o persone di colore”, ha detto alla CBS Tv Scott Kirby, amministratore delegato della compagnia. Oggi le donne pesano solo per il 7% dei piloti, mentre il 13% sono di colore. La disparità con le proporzioni della popolazione è evidente. Ma in questo caso in gioco non c’è uno spettacolo, o qualche soldo in più o in meno. In volo, la competenza è questione di vita o morte.

Come si può introdurre un criterio di razza, o di genere, nella determinazione di una professionalità unica quale quella di un pilota? La United assicura che i suoi standard resteranno altissimi come sono oggi. E ci mancherebbe altro. Ma qui il problema è di logica. Quale criterio vince tra quello della matematica e quello della professionalità/merito? Gli standard di qualità dei piloti sono misurati, come tutti credo siamo d’accordo debbano essere, da parametri oggettivi, fisici, di capacità motoria, di prontezza nella reazione, e di ogni altro valore consolidato dalla tecnologia e dalla esperienza. L’essere stati piloti dell’esercito USA, per esempio. Ciò non può che tradursi in una graduatoria di merito precisa, con voti e giudizi messi a verbale, da esaminatori che dovrebbero badare solo al sodo della qualità dei piloti. E’ in quella classifica dei più bravi, per tecnica e competenza, che vanno scelti i piloti.

Mi è capitato, imbarcandomi, di notare il genere o il colore del capo dell’equipaggio: bianco, donna, nero o asiatico che fosse, non mi ha mai sfiorato l’idea che fosse stato assunto per quel posto su una base diversa dal merito, dalla competenza. Potevano essere per il 70% neri o per l’80% donne e per me sarebbe stato OK. Non mi interessava la statistica woke, e non sapevo che ci fosse un problema di “inclusione”. Se le razze o il genere dei comandanti cambieranno secondo il piano United degli addestramenti a quote prefissate, cioè secondo un traguardo matematico di suddivisione da raggiungere a una data prefissata, si sarà necessariamente introdotto un fattore esterno nella formazione della graduatoria.

C’è un precedente che fa pensare. Quando alle donne è stato consentito di fare le marines, il Pentagono ha dovuto correggere al ribasso certi standard di prestazioni fisiche per ammetterle. Questo per dire che, se l’obiettivo ultimo è quello politico del 50% di donne e di persone di colore, l’oggettività degli standard passa in secondo piano, per forza dei numeri e non per cattiva intenzione dei Ceo “inclusivi”. Ma di buone intenzioni, e lo diceva Karl Marx che è il filosofo più’ caro ai woke di oggi, sono lastricate le vie per l’inferno.

Glauco Maggi

Giornalista dal 1978, vive a New York dal 2000 ed è l'occhio e la penna italiana in fatto di politica, finanza ed economia americana per varie testate nazionali

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