Il contribuente può fornire prova contraria per consentire la disapplicazione della disciplina sulle società di comodo, anche direttamente in sede contenziosa, senza aver prima presentato l’istanza di interpello disapplicativo.
Per la disapplicazione della disciplina sulle società di comodo il contribuente può fornire prova contraria (per consentire la disapplicazione del regime), anche in corso di giudizio, senza necessariamente passare attraverso la presentazione dell’istanza di interpello preventivo, ai sensi dell’articolo 37-bis, comma 8, del DPR n. 600/73.
Questo è quanto ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 16183 del 15 luglio 2014.
La posizione espressa dalla Cassazione appare quanto mai chiara: la domanda di interpello non può costituire una via obbligata per il superamento della presunzione (di non operatività) posta a carico del contribuente, trattandosi, piuttosto, di una mera facoltà che ha il fine di conseguire, in caso di risposta positiva da parte del Fisco, una certezza per il contribuente.
Pertanto, l’omessa presentazione della domanda di interpello, pertanto, non comporta ne´ l’inammissibilità del successivo ricorso ne´ limitazioni all’esercizio del potere di difesa del contribuente che potrà comunque dimostrare la sussistenza degli elementi che consentono di disapplicare il regime antielusivo.
Il caso
Il contenzioso nasce dall’impugnazione di un provvedimento di rimborso iva perché la società era ritenuta non operativa, da parte degli Uffici.
La società aveva omesso di presentare l’istanza di disapplicazione, con riferimento alla disciplina antielusiva sulle società di comodo, da qui la scelta dell’Amministrazione di negare il rimborso Iva.
Avverso il citato provvedimento il legale rappresentante della Società proponeva ricorso eccependo di non aver conseguito ricavi perché la costruzione dell’impianto da utilizzare per lo svolgimento dell’attività d’impresa si era protratta per più anni. Successivamente, i giudici di merito aditi avevano ritenuto provata la presenza di oggettive situazioni che avevano reso impossibile il conseguimento del reddito minimo ovvero delle operazioni rilevanti ai fini Iva.
Avverso tale statuizione aveva ricorso per Cassazione l’Agenzia delle Entrate, senza contestare l’accertamento di fatto, ma limitandosi a sostenere il principio di diritto secondo cui tale accertamento non sarebbe consentito al giudice poiché il contribuente non aveva esperito la procedura di interpello preventivo.
Le motivazioni della sentenza
Le motivazioni addotte dai giudici di legittimità a supporto della decisione si fondano sull’art. 53 della Costituzione che sancisce il principio di effettività (‘‘tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva’’).
Secondo la Corte, lo scopo che si persegue presentando l’interpello preventivo deve essere quello di acquisire una certezza nell’ambito del rapporto tributario, di per se´ rilevante; senza però che la mancata presentazione dell’istanza ovvero il diniego opposto dalla Agenzia delle Entrate possa in alcun modo limitare la capacità di difesa dinnanzi al giudice.
È anche il caso di ricordare, tra l’altro, come nell’ambito della disciplina delle società non operative la presentazione dell’interpello è una facoltà non un obbligo. E dal mancato esercizio di una facoltà non possono farsi discendere conseguenze sostanziali sproporzionate come quella dell’impossibilità di fornire la prova per la disapplicazione del regime in giudizio.
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