Reddito di cittadinanza: perché non ha funzionato, tutta la verità

Redazione Lavoro

23/02/2022

26/05/2022 - 12:49

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Il Reddito di cittadinanza non ha raggiunto - in termini di ricollocazione - i risultati sperati. Ma la colpa era della misura in sé o dell’intero sistema? Facciamo chiarezza.

Reddito di cittadinanza: perché non ha funzionato, tutta la verità

Il Reddito di cittadinanza non sta funzionando, o almeno non come si sperava.

Poco da dire sull’importanza di riconoscere un sostegno economico alle famiglie in difficoltà, ma ricordiamo che il Reddito di cittadinanza è stato presentato anche - e soprattutto - come una misura di politica attiva per il lavoro.

Basta leggere l’ultimo dato aggiornato dall’Inps secondo cui il 70% di coloro che hanno iniziato a percepire la misura tra aprile e giugno 2019 lo ha ancora nell’ultimo semestre del 2021, per farsi un’idea di qual è il problema principale del Reddito di cittadinanza.

Di fatto, le premesse della vigilia non si sono concretizzate: inizialmente, infatti, il Reddito di cittadinanza era stato presentato come una misura provvisoria, di “accompagnamento al lavoro”. Una misura che in poco tempo avrebbe “eliminato la povertà”, in quanto grazie a dei percorsi di riqualificazione professionale la maggior parte dei beneficiari del Reddito di cittadinanza avrebbe trovato un nuovo lavoro in tempi brevi.

Aspettative altissime, lontane da ogni realtà: chi ha ritagliato una tale misura, infatti, non ha fatto i conti con quelli che effettivamente ne avrebbero beneficiato, persone difficilmente ricollocabili nel mercato del lavoro. Secondo gli ultimi dati Inps, d’altronde, su 100 soggetti beneficiari quelli “teoricamente occupabili sono poco meno di 60”.

Ma cosa non ha funzionato? Tra gli addetti ai lavori ci sono anche i navigator, oggi rimasti in meno di 2.000 (mentre inizialmente erano circa 2.700). Un ex navigator lo abbiamo ascoltato con attenzione e questo ci ha raccontato alcuni aspetti della sua esperienza che ci aiutano a capire perché ancora oggi non possiamo dire che il Reddito di cittadinanza funzioni come si vorrebbe, anzi.

Va detto che ogni esperienza è differente, quindi non è comunque possibile generalizzare: tuttavia, quanto da lui raccontato ci offre degli importanti spunti di riflessione.

Reddito di cittadinanza: perché non sta funzionando?

Il Reddito di cittadinanza, i navigator, il potenziamento dei centri per l’impiego: un sistema partito con grandi aspettative ma ancora oggi lontano dal raggiungere gli obiettivi prefissati. Eppure in Europa siamo pieni di modelli che funzionano, di persone che percepiscono una misura per il sostegno al reddito per il - poco - tempo necessario per individuare una giusta ricollocazione.

Oggi ci troviamo in una situazione dove non si può negare l’importanza che il sostegno economico ha per le famiglie in difficoltà economica - anche se il sistema dei controlli andrebbe migliorato per limitare il numero dei furbetti - ma che allo stesso tempo ci vede critici nei confronti di quella che è la ratio della misura.

Che il Reddito di cittadinanza non sta funzionando come si sperava non lo diciamo noi ma i dati: complessivamente in 3 anni sono stati spesi circa 20 miliardi di euro, soldi che sicuramente hanno aiutato quelle famiglie che si trovavano in una condizione economica difficile (specialmente dopo lo scoppio della pandemia), ma con scarsi risultati per quanto riguarda gli obiettivi formativi e lavorativi.

C’è chi potrebbe affermare diversamente rimandando ai dati Anpal secondo cui, citando l’attuale commissario Raffaele Tangorra, “un milione e mezzo di posti di lavoro hanno riguardato un percettore del Reddito”. Nel dettaglio, nel bilancio fatto a dicembre 2021 risultava che:

Su 1,8 milioni di beneficiari attivabili presso i centri per l’impiego, il 40 per cento ha lavorato mentre percepiva il beneficio, e il 30 per cento ha attivato un nuovo rapporto di lavoro, successivo alla domanda per il Rdc”.

Su questi dati ci torneremo in seguito. Quel che interessa al momento è che il 70% dei beneficiari percepisce il Reddito di cittadinanza da quasi 3 anni. La povertà, dunque, è ancora lontana dall’essere “cancellata”.

Un punto di vista importante sul perché siamo lontani dal traguardo prefissato ce lo offre un ex navigator. Nel suo racconto parte da lontano, da quel 31 luglio 2019, primo giorno di lavoro per coloro che di fatto avrebbero dovuto accompagnare i beneficiari del Reddito di cittadinanza in tutto il percorso, diventando poi nel tempo un vero e proprio capro espiatorio.

Io navigator lo sono stato e con grande entusiasmo; spinto da quelle che furono le promesse fatte dall’allora ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, e dall’uomo della “provvidenza”, quel Mimmo Parisi che è stato chiamato dal Mississipi con il compito di traghettare il Paese verso un nuovo sistema di politiche attive per il lavoro. Ricordo ancora il kick off, un entusiasmo latente ma un buffet insufficiente per tutte quelle persone (forse già quello sarebbe dovuto essere un segnale). Si è parlato di software (mai arrivato, e non si è mai davvero puntato come si sarebbe dovuto fare sul sito MyAnpal, già bello e pronto), di matching tra domanda e offerta (dimenticando probabilmente che la Costituzione demanda questo compito alle singole regioni) e di corsi di formazione per coloro che hanno skills carenti per svolgere una determinata professione.

Aspettative alte, anche perché sono stati chiamati a svolgere questo lavoro alcuni dei migliori in circolazione. I navigator, nonostante una campagna mediatica dissacrante, rappresentano il meglio che si potesse richiedere in questo momento per un settore, quello dei servizi pubblici per il lavoro, che conta perlopiù operatori diplomati o persino con la terza media. Nei navigator troviamo invece solo laureati, per la maggior parte donne e giovani, e con una media voto pari a 107/110.

Il potenziale per fare bene c’era tutto, con il supporto di un’istituzione - Anpal Servizi SpA - che ha messo in atto quanto di meglio non potesse fare per formare il nuovo personale in vista del difficile compito per il quale questi erano stati chiamati: riuscire dove i servizi pubblici per il lavoro fino ad allora avevano fallito, provando a far diventare il centro per l’impiego un punto di riferimento per i disoccupati d’Italia.

Dopo due anni di distanza, però, i risultati raggiunti sono stati inferiori alle aspettative (ma va considerato un fattore imprevisto quale lo scoppio della pandemia), tant’è che si parla di potenziare le politiche attive per il lavoro introducendo un nuovo meccanismo, il GOL, che tuttavia potrebbe fallire al pari del Reddito di cittadinanza se non si interviene prima in alcuni dei punti “oscuri” del nostro sistema. Vediamone alcuni.

Navigator ospiti in casa d’altri

“Ho sempre avuto un ottimo rapporto con i miei colleghi del centro per l’impiego, sia con gli altri navigator che con gli operatori regionali. Ma fin da subito ho capito che saremmo stati ospiti in casa d’altri”.

Va ricordato, infatti, che nella convenzione stipulata da ministero del Lavoro, Anpal Servizi e Regioni, è stato sottolineato che la figura del navigator sarebbe stata solamente in assistenza tecnica degli operatori del centro per l’impiego. D’altronde, come anticipato, il compito di attuare le politiche attive sul territorio spetta alle regioni da Costituzione, quel Titolo V che Matteo Renzi ha provato a riformare ma senza successo.

Cosa significasse “assistenza tecnica” me lo sono chiesto fin da subito, ma solo mettendo piede nel centro per l’impiego me ne sono reso conto: semplice affiancamento, con la possibilità di condurre alcune parti del colloquio con il beneficiario, ma senza la possibilità di porre firme su atti ufficiali.

Ospiti ai quali non sono state date postazioni per lavorare: niente PC, solo un tablet messo a disposizione da Anpal Servizi tuttavia inadeguato per svolgere le mansioni quotidiane. Nonostante ciò, chi più e chi meno - ovviamente è impossibile credere che tutti i navigator entrati si siano poi dimostrati meritevoli di quel posto - questi professionisti hanno fatto in modo che quel progetto potesse funzionare, con la difficoltà però di doversi confrontare con una platea di persone difficilmente ricollocabili. Titoli di studio inadeguati, zero competenze e pochissime offerte di lavoro da cui attingere.

La snaturazione del patto per il lavoro

Fin dal kick off veniva posta l’attenzione sull’importanza della profilazione qualitativa. “Serviranno tre colloqui di lavoro” - dicevano - “prima di arrivare alla firma del patto per il lavoro”.

D’altronde, l’importanza di questo documento non va sottovalutata: è con il patto per il lavoro che la persona si impegna a svolgere le operazioni necessarie per la ricerca di un nuovo impiego, definendo tra l’altro il settore d’interesse.

Peccato che poi - complice l’elevato numero di beneficiari da profilare - l’indicazione sia stata quella di arrivare alla firma del patto “già dal primo incontro”. Un’ora da dedicare allo svolgimento degli adempimenti burocratici, alla spiegazione degli obblighi derivanti dalla firma del documento e all’illustrazione del “dopo”, compreso l’arrivo dell’assegno di ricollocazione “che a molti beneficiari non è stato nemmeno assegnato”.

In questo modo, quello che doveva essere l’inizio di un rapporto di fiducia tra il beneficiario e il centro per l’impiego si è ridotto in un semplice atto amministrativo, “visto che in quel lasso di tempo è impossibile effettuare una profilazione qualitativa degna di un tale nome”.

Cosa succede dopo il Patto per il Lavoro?

Questo paragrafo potrebbe concludersi con una semplice parola: “niente”. Nella maggior parte dei centri per l’impiego, specialmente in quelli piccoli, non vi è l’interesse a garantire alcuni importanti servizi. Seminari di orientamento, tempo da dedicare allo sviluppo di un Curriculum Vitae professionale o alla ricerca del lavoro affiancati da un esperto: “niente di tutto questo”.

Semmai il beneficiario viene richiamato qualche mese dopo per una verifica amministrativa dello stato della sua domanda, ma non si va oltre.

Come anticipato, poi, per molti beneficiari la mancanza di titoli e competenze è un ostacolo alla ricerca di un lavoro.

Eppure molti di questi sarebbero anche disposti a rimettersi in gioco, acquisendo nuove competenze così da poter essere in linea con le nuove tendenze del mercato del lavoro.

Per quanto riguarda i corsi di formazione, però, si potrebbe benissimo lanciare una puntata di “Chi l’ha visto”. Sono pochi, incapaci di rispondere alle esigenze di una tale platea di persone che dovrebbero essere prese per mano e formate da capo per poter ritornare a essere occupabili.

Non è così in tutte le Regioni, ovvio, ma soprattutto nel Centro e Sud Italia la proposta formativa è ancora carente, specialmente per quanto riguarda la formazione di nuove competenze, in linea con le nuove richieste del mercato del lavoro.

L’attuazione delle politiche attive non può gravare solamente sui centri per l’impiego: serve un network che sia altamente interconnesso, cosa che al momento non si verifica anche per scarsa volontà politica.

La scarsa comunicazione tra le istituzioni

Altro problema: la scarsa connettività tra le istituzioni che partecipano all’intero sistema. Inps e centri per l’impiego non possono comunicare tra di loro, eppure tante volte in sede di valutazione del beneficiario emergono vizi di forma che andrebbero segnalati all’Istituto, in quanto quel nucleo familiare non si trova nella situazione per avere diritto al Reddito di cittadinanza. Un modo per segnalare, e risparmiare risorse pubbliche, tuttavia, non esiste.

Anpal e Regione comunicano, ma il dialogo non sempre è così semplice e spesso - specialmente dalla parte regionale - si innesca più una competizione che una sana collaborazione che porta a rallentare l’attuazione della legge. Parlare di “boicottaggio” sarebbe troppo, ma siamo al confine.

E soprattutto, c’è poca consapevolezza di quello che succede nei centri per l’impiego, specialmente in periferia.

“Ci fosse stato, in due anni, un funzionario della Regione - o anche di Anpal - che sia venuto a far visita al nostro CpI, anche solo per controllare lo stato della struttura (che nel caso specifico è fatiscente)”.

Ci si attiene ai numeri, che tuttavia spesso sono fuorvianti. E ciò fa sì che in ognuno dei centri per l’impiego ogni singola procedura venga svolta in maniera differente rispetto a un altro, e molte volte anche l’interpretazione che viene data a una certa norma non è la stessa (i LEP, questi sconosciuti).

Il rapporto con le aziende

E veniamo al momento in cui, “improvvisamente”, ai navigator è stato detto di andare dalle aziende per raccogliere le posizioni vacanti e poterle così presentare ai beneficiari. Un lavoro iniziato ad agosto 2020, in piena pandemia tra l’altro, un anno dopo la firma dei primi patti di lavoro.

Il problema è: cosa offriamo alle aziende? Non abbiamo un bacino da cui attingere, se non quello rappresentato dai beneficiari del Reddito di cittadinanza che tuttavia in molti casi non rispondono a quelle che sono le richieste di un’azienda. Nella maggior parte dei casi, viste le tendenze del mercato del lavoro e il processo di digitalizzazione ormai avviato da qualche anno, la richiesta riguardava profili introvabili, e non solo perché il nostro unico bacino a disposizione era quello dei beneficiari del RdC.

Dunque, in molti casi, quelle raccolte erano vacancy per le quali da tempo le imprese avevano avviato la ricerca di personale, ma con poco successo. D’altronde non è un segreto che ci siano settori in cui l’offerta di lavoro supera abbondantemente la domanda e altri in cui, viceversa, ci sono le opportunità ma mancano i lavoratori.

Ed è qui che si sarebbe dovuto e potuto intervenire con i corsi di formazione, tuttavia latenti. Informatici, autisti, meccanici esperti: tantissime le offerte di lavoro in questi settori, ma pochi beneficiari in grado di soddisfarne i requisiti.

In queste condizioni, immaginiamo sia impossibile instaurare un rapporto di fiducia con le aziende, anche perché per gli altri servizi - come ad esempio la consulenza sugli sgravi contributivi di cui poter beneficiare al momento di un’assunzione - queste possono già disporre del supporto dei loro consulenti del lavoro.

I correttivi della Legge di Bilancio

Alla luce di tutto ciò, fa riflettere quanto fatto con l’ultima Legge di Bilancio, con la quale sono state introdotte delle novità per “incentivare l’accesso al mercato del lavoro per i beneficiari del Reddito di cittadinanza”.

Novità che tuttavia - ve lo anticipiamo - avranno scarso successo in quanto non vanno a intervenire sulle suddette lacune. Ad esempio: viene stabilito che nei primi 18 mesi di percezione del beneficio chi prende il Rdc può rifiutare due sole offerte di lavoro (anziché tre). Una novità che tuttavia non tiene conto di due fattori:

  • la maggior parte degli attuali beneficiari percepisce il RdC da oltre 18 mesi, ed oltre questa scadenza non esistono offerte congrue rifiutabili;
  • non esiste oggi una procedura chiara su come tracciare le offerte congrue presentate ai beneficiari del Reddito di cittadinanza.

Ed è proprio per ques’ultimo punto che i dati Anpal vanno contestualizzati. Quando si parla di “beneficiari che hanno trovato lavoro”, infatti, non per forza vuol dire che questi lo hanno fatto grazie al lavoro svolto dal centro per l’impiego. Ci sono persone, infatti, che semplicemente hanno trovato un lavoro “mentre” percepivano il Reddito di cittadinanza, e probabilmente lo avrebbero trovato anche senza essere mai passati dal centro per l’impiego.

Non è possibile, dunque, quantificare quanto effettivamente la politica attiva collegata al Rdc abbia funzionato, semplicemente perché non esiste un tracciamento che ci consente di farlo.

Cosa serve affinché il Reddito di cittadinanza funzioni

Per fare in modo che il sistema possa funzionare serve in primis la volontà politica di tutte le parti in causa. Volontà che spesso manca: basti pensare che molte Regioni non hanno provveduto a bandire i concorsi - finanziati dallo Stato - per il potenziamento dei centri per l’impiego.

Poi servono strumenti adeguati: non basta ogni volta tracciare un percorso differente (prima il REI, poi il RdC e adesso il GOL) se poi la macchina con cui lo devi percorrere ha le ruote sgonfie. Si è parlato di potenziamento dei centri per l’impiego e non è stato fatto, si è parlato di dialogo tra servizi pubblici e privati e anche lì siamo a un punto morto.

Se non si mettono a punto tutti i servizi pubblici per il lavoro è inutile introdurre ulteriori progetti, rischiamo di sprecare solamente altre risorse. Il GOL - che di fatto non è così tanto differente dalla politica attiva collegata al Reddito di cittadinanza - ci costerà 4,4 miliardi: ecco, rischiamo di buttarli se prima non si interverrà sui problemi strutturali.

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