Le quotazioni e l’attuale calo del prezzo del petrolio sono stati determinati in gran parte dalle decisioni messe in campo dall’Arabia Saudita: ecco perché è rivelata una strategia vincente che continuerà a determinare l’andamento dell’oro nero anche nei prossimi mesi.
Il prezzo del petrolio e il suo attuale calo è una delle questioni maggiormente dibattute attualmente nello scenario macroeconomico attuale. Sono state molte le dichiarazioni, le analisi e i pronostici che hanno catturato l’attenzione degli operatori finanziari recentemente ma al di là delle variazioni e delle letture estemporanee appare utile, soprattutto, domandarsi se c’è un filo rosso che possa fornire una chiave di lettura appropriata di un trend di medio - lungo periodo.
A tal proposito è opportuno guardare alle scelte e alle valutazioni dell’Arabia Saudita, l’attore in campo che di certo ha le responsabilità maggiori nella configurazione dello scenario attuale e che continua a richiamare l’attenzione su di sé grazie alle recenti dichiarazioni del potente ministro del Petrolio Ali Al Naimi.
Mentre poco tempo fa aveva predetto un rialzo del prezzo del petrolio nei prossimi mesi, lo stesso Al Naimi sembra aver smentito se stesso nello scorso weekend, quando ha fatto sapere che in quest’ultimo mese la produzione saudita di petrolio è risalita alla quantità record di 10 milioni di barili al giorno ossia a un livello superiore di 350000 unità rispetto a quello su cui si era attestata la produzione sempre saudita nello scorso mese di Febbraio.
A che gioco sta giocando allora l’Arabia? E’ forse una forma di autolesionismo finalizzata a ottenere guadagni sempre minori (dal momento che se la produzione aumenta il prezzo del petrolio non farà altro che diminuire ancora)?
Niente affatto. Quella araba è una strategia commerciale ponderata che ha portato solo vantaggi all’Arabia Saudita e che, molto probabilmente continuerà a far affluire denaro nelle casse, già strapiene, di Riyadh.
Per comprendere il significato di tali scelte dobbiamo innanzitutto ricordare che nella fondamentale riunione dell’OPEC dello scorso 27 Novembre l’Arabia era riuscita a convincere gli altri Paesi associati nel cartello a non ridurre la produzione di greggio. Lo scopo era quello continuare a svolgere un ruolo preponderante sul mercato dell’oro nero, contrastando soprattutto concorrenti "emergenti" come gli USA che, grazie alla nuova risorsa dello shale oil, rischiavano di perdere il loro status di paese importatore di combustibile per diventare un paese esportatore.
La mossa si era rivelata appropriata ma perché adesso l’Arabia Saudita ha addirittura deciso di aumentare la propria produzione? I livelli di estrazione sono vicini a quelli dello scorso luglio ma mentre in estate la crescita della produzione è spiegabile con una crescente domanda interna dovuta alle condizioni climatiche (l’estate è il periodo più caldo quindi il periodo in cui si utilizzano maggiormente i condizionatori e gli impianti di refrigerazione che richiedono un impiego maggiore di energia), al momento attuale solo una parte della produzione è andata a soddisfare la domanda interna mentre un’altra parte, quella più consistente, è andata all’estero.
Come ha spiegato Gary Ross, presidente della società di consulenza energetica Pira Energy Group, le esportazioni saudite di petrolio, grazie alla convenienza dei prezzi praticati, sarebbero cresciute non solo verso l’Asia ma anche verso gli Stati Uniti e verso l’Europa.
Il clima ha fornito anche un ulteriore aiuto all’Arabia Saudita che gode di un inverno mite a differenza di concorrenti quali l’Iraq, la Russia e il Kazakhstan, le cui esportazioni di petrolio sono state frenate, appunto, dalla cattiva stagione.
I prezzi praticati da Riyadh sono stati così competitivi da far aumentare la domanda di petrolio saudita e da scalzare quote di mercato precedentemente detenute anche da altri paesi appartenenti all’OPEC quali il Venezuela e la Nigeria.
Una strategia commerciale acuta, dunque, che non solo ha portato benefici crescenti all’Arabia Saudita in termini di vendite ed esportazioni ma gli ha permesso di conquistare quote di mercato detenute precedentemente da altri Paesi. A tutto questo occorre aggiungere anche l’obiettivo primario che si era posta l’Arabia, ossia il contrasto agli Stati Uniti.
Nonostante molte compagnie produttrici di shale oil abbiano continuato ad estrarre l’olio di scisto, soprattutto per pagare gli esorbitanti interessi sui debiti contratti, rimane quasi del tutto vietato esportare petrolio dagli Usa. Come ha spiegato la scorsa settimana Ryan Lance, Amministratore Delegato di ConocoPhillips, in un’audizione alla commissione Energia del Senato americano, gli USA soffrono
"di uno svantaggio competitivo (...) I nostri concorrenti oltre Oceano si stanno espandendo nel mondo grazie a prezzi più alti di quelli che spuntiamo noi per un prodotto di qualità analoga"
Una situazione questa che sta determinando un nervosismo sempre maggiore sia tra le compagnie petrolifere USA che tra gli operatori finanziari statunitensi. Non solo il petrolio USA deve rimanere entro i confini statunitensi ma il WTI viene anche scambiato a un prezzo minore rispetto al Brent (attuali quotazioni 47,20 con variazione del -0,53% e 55,64 con variazione del -0,50% rilevazione delle 9.30).
A ciò si aggiungono i recenti allarmi riguardo alle scorte di greggio americane che hanno ingenerato preoccupazioni relative al crollo del prezzo del petrolio e, soprattutto, hanno suscitato l’allarme dei fondi d’investimento statunitensi che, nell’ultima settimana, hanno aumentato le posizioni corte alla vendita sul WTI di oltre il 20%. In altri termini quote (record) equivalenti a 209 milioni di barili sono scambiate in un arco ristretto di tempo, dal momento che è sempre minore la fiducia in una ripresa del prezzo del petrolio.
Anche se le posizioni lunghe continuano a essere prevalenti le distanze con quelle corte si accorciano dal momento che le attuali proporzioni sono di 1,8 a 1, il livello minimo degli ultimi 5 anni. Situazione differente si sta configurando, invece, per il Brent per il quale le posizioni ribassiste sono aumentate in misura molto contenuta nella scorsa settimana e dallo scorso settembre, in un trend di medio lungo periodo, sono addirittura diminuite del 40%, attestando, dati alla mano, anche la fiducia dei mercati nei confronti della lungimirante strategia commerciale saudita.
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