Economia: paradigma della scarsità vs. paradigma della riproducibilità

Christian Dalenz

22/08/2015

Andiamo alla scoperta delle diversità di approccio scientifico nello studio dell’economia: differenze tra il paradigma della scarsità e il paradigma della riproducibilità

Economia: paradigma della scarsità vs. paradigma della riproducibilità

Ogni disciplina scientifica, per potersi permettere di cominciare ad indagare l’oggetto di ricerca studiato, deve innanzitutto dotarsi di un paradigma, ovvero di un modello che definisca cosa è reale ed esistente riguardo l’oggetto di studio e sulla cui veridicità possano convergere tutti gli studiosi della disciplina o almeno la maggioranza.

Il paradigma sul quale si regge attualmente la scienza economica, per la maggior parte degli economisti, è quello della scarsità, secondo il quale beni e risorse sono scarse e vanno perciò ben amministrate per raggiungere gli scopi che ci si prefigge: va richiamata in questo senso la nota definizione di Lionel Robbins secondo la quale l’economia è “la scienza che studia la condotta umana come una relazione tra scopi e mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi”.

La scuola di pensiero economico che pone questo paradigma a fondamento delle proprie teorie è la scuola neoclassica, secondo la quale la scarsità non è affrontabile dallo Stato nella sua facoltà di spesa. La scuola neoclassica sostiene che nel lungo periodo le condizioni di crescita sono date dalle risorse disponibili, dalla tecnologia presente e dal sistema di preferenze di ciascun individuo. Lo Stato, spendendo, risulterebbe ininfluente o persino dannoso, perché spiazzerebbe la spesa privata e creerebbe inflazione. Nel breve periodo, un ruolo marginale di intervento pubblico potrebbe anche portare benefici, ma in questo senso riconoscono un ruolo positivo più che altro all’allargamento della base monetaria e scarso alla spesa pubblica.

Questo paradigma non è però condiviso da tutti gli esperti. Gli economisti critici, appartenenti ad alcune scuole eterodosse, ritengono che alla base della disciplina debba piuttosto esserci il paradigma della riproducibilità; piuttosto che ragionare sulla scarsità, bisogna ragionare a loro avviso sulle condizioni di riproducibilità del sistema. In questo senso, sostengono che il ruolo dello Stato è fondamentale per garantire una crescita sostenuta: se non si pensa a sostenere con la leva pubblica domanda, investimenti e formazione dei lavoratori oggi, piuttosto che aspettare la "naturale" ripresa economica, la crisi potrebbe incorrere in una stagnazione,che corrisponderebbe ad un nuovo equilibrio non ottimale.

Per gli economisti neoclassici invece occorre oggi risparmiare, per poter permettersi di investire domani: ragionamento che è alla base delle attuali politiche di austerity e che secondo gli economisti critici porterà invece a dover risparmiare anche domani. In particolare nei periodi di crisi economica, a detta di alcune scuole eterodosse non ha alcun senso preoccuparsi di possibili distorsioni di spesa privata e dell’inflazione che la spesa pubblica provocherebbe: anzi, gli effetti di quest’ultima sarebbero del tutto benefici.

Inoltre, secondo gli economisti neoclassici, il paradigma della scarsità impone, al fine di una allocazione corretta delle risorse, che questa venga raggiunta lasciando in azione l’equilibrio naturale a cui tendono i prezzi dei beni e dei salari: qualora ci si trovi in una condizione di sovrabbondanza dei beni, i rispettivi prezzi dovranno scendere per permetterne la corretta distribuzione, viceversa avverrà (i prezzi aumenteranno) nel caso di scarsità di beni; alla stregua di un bene viene trattato, seguendo lo stesso ragionamento, il "prezzo" del lavoratore. Infatti, secondo gli economisti neoclassici la disoccupazione, eccesso di forza lavoro rispetto a quanto assorbibile dal sistema, può essere affrontata se i lavoratori accettano di subire una diminuzione dei propri salari e togliere le frizioni contrattuali che ostacolano tali aggiustamenti, così da poter trovare allocazione sul mercato, oppure formare meglio i lavoratori, così da poter rispondere meglio alle richieste delle imprese.

Per gli economisti critici non esiste un solo equilibrio naturale ma equilibri multipli e instabili, perciò anche non accettabili socialmente; nel caso del problema salariale, sottolineano perciò come l’approccio neoclassico metta a rischio la riproducibilità del sistema, perché seppure ci si trovi in una situazione di equilibrio, salari più bassi potrebbero causare una crisi di domanda aggregata che comporterebbe una conseguente crisi di investimenti, vista la minore disponibilità di denaro da parte dei lavoratori nella loro veste di consumatori, e mettere perciò a rischio gli stessi profitti delle imprese, che avrebbero di fronte meno capacità di acquisto dei beni da loro prodotti.

Corrette politiche economiche per affrontare le crisi sono dunque, ad avviso degli economisti critici, sostegno alla domanda aggregata, garantire l’esistenza di sindacati forti che contrattino salari adeguati, controlli di capitale che impediscano agli imprenditori ed investitori di spostarsi in luoghi dove il costo della manodopera permane più basso.

Tra gli economisti più importanti della tradizione neoclassica possiamo ricordare Carl Menger, Alfred Marshall, Gerard Debreu, Kenneth Arrow, Robert Solow, Milton Friedman e Robert Lucas.

Gli economisti critici più rilevanti sono invece Karl Marx, John Maynard Keynes, Michael Kalecki, Piero Sraffa, Wassily Leontief e Hyman Minsky.

Abbiamo parlato della differenza tra i due paradigmi e di altre questioni economiche (non solo teoriche, ma anche pratiche), in un’intervista con l’economista Marco Veronese Passarella pubblicata su Forexinfo.it .

Per un ulteriore approfondimento riguardo la diversità di approcci alla scienza economica e al possibile cambio paradigmatico, rimando al mio saggio Economia e Scienza, pubblicato con CSEPI.

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