Paolo Savona: serve un piano B per uscire dall’Euro. Da Renzi mi aspetto molto

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09/03/2014

Paolo Savona: servono un piano A per restare in Europa e un piano B per uscire. L’intervista di marzo 2014 all’economista sardo.

Paolo Savona: serve un piano B per uscire dall’Euro. Da Renzi mi aspetto molto

Paolo Savona, economista ed ex ministro dell’industria nel governo Ciampi, ha rilasicato un’intervista al Giornale dell’Umbria in cui parla della necessità per l’Italia di preservare e difendere le sue risorse: turismo, eccellenze industriali e non solo.

Per questo, secondo Savona, occorrono un piano A per restare in Europa in modo differente da oggi e un piano B per uscire.

Ecco il testo integrale del’intervista:

La nascita dell'euro sollevò molte speranze per un'Europa con più benessere, più forte e più protagonista nel mondo. Il bilancio, almeno per Paesi come l'Italia, appare magro. Cosa non ha funzionato?

 

«Sollevò molte speranze perché fece molte promesse. Jaques Delors fu nominato Capo della Commissione di Bruxelles per gestire il Trattato dell'Unione che fu firmato a Maastricht e commissionò a un Gruppo di lavoro presieduto da un italiano, Paolo Cecchini, una ricerca dal titolo "1992: Il costo della non Europa", sui vantaggi che sarebbero derivati dalla nascita del mercato unico e sulle perdite che su sarebbero avute se non fosse stato attuato. Il Rapporto valutava i vantaggi nell'ordine del 6% di crescita del Pil (Prodotto interno lordo, ndr) e di conseguenza questa sarebbe stato il lucro cessante, ma sarebbe andato anche peggio per il danno emergente se un paese non avesse aderito e altri avessero invece deciso di procedere. Il Consiglio europeo fu più cauto e parlò del 4%, valutando eccessivo l'ottimismo del Rapporto. Ancora più superficiale fu la valutazione della moneta unica, che vide in Guido Carli, allora ministro del Tesoro incaricato a trattare le condizioni di adesione al Trattato di Maastricht, l'unico che si impegnò a rendere meno rigide le condizioni fiscali (3% di deficit di bilancio statale e 60% del rapporto debito pubblico/Pil), però con l'intento di consentire all'Italia di entrare nell'eurosistema alla data prevista della verifica di rispondenza, il 1998.

Già nella fase di preparazione fu chiaro che, almeno per quanto riguarda l'Italia, le divergenze di crescita, soprattutto nel settore industriale, cominciarono a manifestarsi. È impressionante il netto stacco tra la variazione della produzione industriale tedesca e quella italiana subito dopo la firma del Trattato europeo. Attualmente la divergenza è nell'ordine del 40%.

L'architettura monetaria e fiscale europea ha basi teoriche inaccettabili per un'area monetaria non ottimale, ossia un'area al cui interno esistono divari strutturali di produttività a livello territoriale (Nord-Sud), settoriale (agricoltura, industria e soprattutto servizi) e dimensionale (prevalenza di piccole imprese). La teoria economica e l'esperienza pratica, infatti, insegnano che il superamento di questi dualismi (così si chiamano in letteratura) richiede la perfetta mobilità del lavoro e dei capitali e politiche fiscali compensative. La perfetta mobilità del lavoro non è solo la possibilità di varcare le frontiere liberamente (l'accordo di Schengen), ma anche di permettere la libera contrattazione del salario; invece la direttiva Bolkestein (dal nome del Commissario proponente) è stata respinta, imponendo che i contratti di lavoro da applicare fossero quelli nazionali, perpetuando il dualismo. La perfetta mobilità del capitale è anch'essa solo teorica, perché è stata permessa l'applicazione di trattamenti tributari diversi da paese a paese, invece di armonizzarli per consentire un'equa competizione. La sovranità fiscale è stata lasciata agli Stati, ponendo però vincoli di eguale trattamento, proprio ciò che un'area monetaria non ottimale respinge. Inoltre la Bce ha avuto uno statuto che le impedisce di competere con gli stessi strumenti e per gli stessi obiettivi delle principali banche centrali dei principali paesi. Infatti l'obiettivo assegnato è uno solo, la stabilità dei prezzi, come pure lo è lo strumento, il finanziamento delle banche. La Fed, la Bank of England e la Bank of Japan curano anche lo sviluppo e possono intervenire sul mercato dei cambi esteri e acquistare titoli di Stato. Per evitare che la crisi dei debiti sovrani trascinasse l'euro, la Bce di Draghi ha deciso di acquistare titoli pubblici già in circolazione, aggirando la norma. Siamo al paradosso che l'area con la disoccupazione più elevata, quella dell'euro, vede rivalutarsi il cambio, mentre le aree a maggiore sviluppo vedono svalutare le loro monete.

È una situazione a dir poco paradossale e sentiamo ripetere che esistono problemi superabili e che la ripresa è alle porte».

 

L'Italia ha certamente le colpe delle sue mancate riforme, ma l'Europa i suoi impegni e le sue promesse li ha mantenuti?
 

«Per quanto detto la risposta non può che essere quella che il professor Guarino ripete: esiste una violazione dell'accordo del Trattato e, quindi, dovremmo chiedere i danni e pretendere dall'Europa le riforme necessarie; altrimenti si deve uscire dall'euro. Gruppi dirigenti influenti temono le conseguenze, ma queste sono di gran lunga più accettabili, in prospettiva, di quanto non sia l'ipotesi di restare nell'eurosistema e nell'Unione europea senza muovere verso un'unione politica che consenta di non dipendere da pochi paesi, Germania in testa.

È pur vero che l'Italia ha fatto poche riforme, ma anche quelle che ha fatto, come la riforma pensionistica e i tagli alla rete di welfare, non hanno prodotto effetti positivi, anzi hanno aggravato il disagio sociale e la disoccupazione. I problemi sono molto più complicati non solo a livello europeo: l'aver aperto le frontiere a paesi con un eccesso di mano d'opera, salari bassi e welfare quasi nullo, ha attirato investimenti e creato occupazione, togliendola ai paesi più avanzati, i cui gruppi dirigenti non hanno una risposta e sanno solo dire che bisogna adattarsi a un peggioramento delle condizioni di benessere e convivenza civile che si cela dietro la parola ""riforma". Il mondo ha perso la direzione di marcia, che è quello accrescere il benessere, non redistribuirlo, mantenendo poveri i poveri e costringendo chi è uscito dall'indigenza a tornarci. Guido Carli disse che in gruppi dirigenti occidentali non hanno brillato nelle loro intuizioni e nelle loro scelte.

Un ultimo punto: non condivido che la colpa venga data alle mancate riforme all'interno, perché sono mancate anche quelle europee e quelle globali».

 

Riavvolgendo il film e tornando al periodo in cui si è negoziata la marcia dell'integrazione europea supera, dal 1987 in poi, cosa andrebbe modificato rispetto ai Trattati approvati?
 

«Si deve pervenire a una nuova architettura i cui contenuti dipendono dall'accettazione o meno di procedere verso l'unificazione politica. Se l'idea è di un'Europa veramente unita su basi democratiche, allora necessitiamo di un assetto istituzionale della Bce, l'unico vero potere operativo europeo, secondo le linee da me indicate. Si potrebbe inoltre assegnare alla Commissione il potere di proporre investimenti di interesse europeo nell'ambito di quel 3% permesso agli Stati membri, senza però distinguere tra spese correnti e spese in conto capitale, chiedendo ai paesi di rispettare il pareggio di bilancio corrente e finanziando gli investimenti europei con emissioni della Banca europea degli investimenti, al fine di evitare la disputa sull'opportunità di emettere eurobond nell'ambito di un'area che non ha, per Trattato, sovranità fiscale.

Al primo posto metterei però la costituzione di una Scuola europea di ogni ordine e grado per dare ai cittadini europei una cultura in comune, sia pure insegnando anche la rispettiva storia patria. Non trascurerei, inoltre, la nascita di un Consiglio europeo per la sicurezza e le relazioni internazionali per prepararci e procedere uniti nelle sedi internazionali. L'attuale rappresentanza europea è composta da 27 Stati e la Commissione di Bruxelles; secondo la materia trattata, la rappresentanza si raddoppia raggiungendo il ragguardevole numero di 56 rappresentanti europei, sovente in disaccordo. Che credibilità può avere un'Europa che si definisce Unione, ma si comporta come una Disunione?».

 

L'Italia sembra avere, al momento, pochi margini di manovra per rilanciare l'economia (tetto del deficit al 3%, fiscal compact...). Cosa si può fare date le condizioni attuali e cosa andrebbe fatto? In sostanza, l'Italia è in grado di uscire da questa situazione senza un cambiamento delle politiche Ue?
 

«Esistono spazi di azione interna a prescindere da un cambiamento dell'attitudine politica dell'Ue di fare poco per aiutare i paesi membri a uscire dalla crisi, mentre chiede sempre più regole e pone maggiori vincoli fiscali. Lasciando da parte il fiscal compact (l'obbligo del pareggio di bilancio, sia esso corrente che per investimenti) e la decisione di trasformare vincoli in veri e propri divieti sanzionabili anche con la perdita di sovranità fiscale, perché norme introdotte in violazione di quelle fissate dal Trattato con un regolamento (il 1466/97), l'Italia può ridurre il debito pubblico in essere mettendo al servizio dell'operazione il patrimonio pubblico (esiste una proposta da me avanzata con i colleghi Michele Fratianni e Antonio Rinaldi), decidere di stabilizzare la tassazione per almeno tre anni e rilanciare le costruzioni, il secondo motore del nostro sviluppo».

 

Lei è stato ministro dell'Industria ed è da sempre è un protagonista della vita economica italiana. Come vede posizionato il nostro apparato industriale? Cosa è accaduto e cosa può accadere?

 

«Il nostro apparato industriale è eccellente. Esistono gli studi di Marco Fortis che testimoniano, prodotto per prodotto, la posizione dell'industria italiana nel commercio mondiale. Sul made in Italy, una volta solo tessile, oggi anche prodotti alimentari, siamo quasi imbattibili. Sul turismo, salvo le grandi città d'arte (Roma, Venezia, Firenze...), siamo appena agli inizi di un serio impegno produttivo che innalzi le presenze ai livelli degli altri paesi. Basterebbe un po' di serietà e un po' più di cortesia. Il problema non è questo, ma la spaccatura che si è determinata all'interno del territorio (tra il Centro-Nord e il Sud), dei settori produttivi e delle dimensioni di impresa. Una parte dell'industria va molto bene e un'altra molto male. In queste condizioni le medie sono come il celebre pollo di Trilussa: se c'è a disposizione un pollo per due persone e una sola lo mangia, le statistiche indicano che ciascuno ne ha mangiato la metà. Questo è quanto sta accadendo nel territorio, nei settori produttivi e nelle dimensioni di impresa. Le banche stanno patendo questa situazione a causa dei fallimenti della parte perdente e rischiano d'essere trascinate dalle insolvenze che richiedono d'essere coperte da maggiore capitale di rischio, che difficilmente affluisce nelle condizioni di crisi produttive. Solo ora si pensano soluzioni che proteggano le banche da una crisi che non hanno generato, ma che aggravano se non tornano a erogare il credito ai settori capaci di fronteggiare la competizione internazionale. Le prospettive economiche sono favorevoli per le imprese private che sono state capaci di fronteggiare la crisi e sfavorevoli per la pubblica amministrazione che non è capace di adeguarsi ai tempi e alle necessità del Paese. La politica non ha le idee chiare di come affrontare questa dissociazione e cerca solo di procurarsi risorse per spendere di più, anche incidendo sulla ricchezza privata legalmente accumulata. Si pensi che, per raccogliere circa 5 miliardi di euro in più con l'Imu sugli immobili, hanno inflitto una perdita di valore degli stessi nell'ordine stimato di 100 miliardi di euro. Proprio un bell'affare!».

 

È pensabile un'uscita dell'Italia dall'euro?
 

«Pensabile è pensabile e, ove necessario, va fatto. Il necessario diverrebbe tale se la crescita produttiva restasse nettamente al di sotto di quel 3-4% indispensabile per far riprendere l'occupazione. Ho più volte espresso la mia posizione in materia: occorre avere un Piano A per come stare nell'euro e un Piano B per come uscire. L'uscita sotto la spinta di un attacco speculativo, come quello mosso nel 2010, sarebbe un dramma. Occorre essere preparati e, per farlo, occorre stabilire nuove alleanze internazionali per fronteggiare l'attacco speculativo contro il debito pubblico e le imprese private. La storia d'Italia è stata una storia di alleanze, a partire da quella stabilita con i francesi per l'unità d'Italia a quella con gli americani nel dopoguerra e all'alleanza europea, divenuta purtroppo la terza edizione dell'alleanze tragiche con i tedeschi.

Stare nell'euro non è meno difficile di quanto sia uscirne. Se il costo per rimanervi è la perdita di quote importanti del nostro apparato produttivo e disoccupazione crescente, concentrata per giunta nel settore giovanile, i gruppi dirigenti politici violerebbero i doveri costituzionali stando nell'eurosistema. In assenza di una unificazione politica democratica, essi hanno il dovere costituzionale di difendere gli interessi nazionali.

Trovo intollerabile sentire questi gruppi diffondere il panico su ciò che verrebbe dopo, se abbandonassimo l'euro, senza dire che cosa accadrebbe se lo mantenessimo a ogni costo, come stiamo facendo».

 

In che condizioni è il sistema bancario italiano? Perché continua la stretta del credito?
 

«Ha resistito meglio degli altri sistemi alla crisi internazionale, perdendo una larga quota del suo patrimonio. Trova invece difficoltà a fronteggiare le conseguenze sia delle rigidità politiche e carenze istituzionali dell'Europa, sia delle incertezze politiche ed errate decisioni fiscali del nostro Paese.

Il loro equilibrio è instabile e, se la crisi durasse, il ritorno alla banca pubblica fuori dall'euro sarebbe inevitabile. L'unione bancaria senza unione politica è, come l'euro, un'altra delle decisioni troppo precipitose prese dal Paese senza una rete di protezione».

 

Cosa si attende dal Governo Renzi?

 

«Come tutti, mi attendo molto, ma ciò che promette è troppo, perché la soluzione dei problemi da me elencati e il clima internazionale sovrastano ogni qualsiasi capacità delle persone di fronteggiare la situazione. Non esistono uomini della provvidenza, ma solo uno sforzo corale dei cittadini.

Invece la politica va mettendo gli uni contro gli altri, i presunti ricchi con i poveri effettivi, illudendo questi ultimi che la redistribuzione del reddito e della ricchezza possa risolvere i loro problemi di fondo (architettura istituzionale e politiche europee e interne), quali l'occupazione e la rete di protezione sociale; mettono inoltre i giovani contro i vecchi, nonostante il Paese abbia bisogno delle energie dei primi, ma anche della saggezza ed esperienza dei secondi.

La mia valutazione è che i problemi economici possono essere avviati a soluzione con politiche mirate, mentre ciò che non si riesce a governare è la società. Questo non appare chiaramente nel dibattito politico».

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