L’Italicum, la legge elettorale di un partito sempre meno democratico è stata approvata da pochi giorni in via definitiva: l’analisi puntuale di Maria Luisa Boccia mette in luce le dinamiche di un atto di forza politico e le debolezze sottese al provvedimento.
Dopo un percorso oltremodo travagliato e accidentato l’Italicum è legge. La tanto vituperata legge elettorale che riforma il sistema di voto italiano ha subito molteplici modifiche ed è stata oggetto di numerose revisioni.
Sul piano politico, da iniziale punto di incontro con Forza Italia, nel Patto del Nazareno, l’Italicum ha portato a successive spaccature: non solo quella delle larghe intese, auspicabili per l’approvazione di una legge di riforma del sistema elettorale ma anche a quella, più recente, avvenuta in seno al Pd.
Alla mancanza di una maggioranza ampia e condivisa si è associato anche un meccanismo di voto, quello di fiducia, che ha portato all’approvazione dell’Italicum in tempi brevi, pur rinunciando, di fatto, al dibattito parlamentare e a gran parte dei possibili miglioramenti che le Camere avrebbero potuto apportare al testo dell’Italicum.
Il sistema di voto previsto dall’Italicum, caratterizzato dalla forma proporzionale, da un elevatissimo premio di maggioranza e dai capilista bloccati, è stato oggetto di numerose critiche non solo da parte delle opposizioni ma anche dalla stessa minoranza interna del Partito Democratico che ha espresso un voto negativo.
In questa intervista si è tentato di lumeggiare i maggiori elementi di criticità dell’Italicum e le direttrici politiche sottese, insieme a Maria Luisa Boccia, già docente di Filosofia Politica all’Università di Siena, teorica del femminismo (la sua ultima pubblicazione, Con Carla Lonzi, è uscita nel 2014, per Ediesse), da molti anni impegnata nelle attività del Centro studi e iniziative per la riforma dello Stato – Archivio Pietro Ingrao e attualmente anche direttrice della collana “Carte Pietro Ingrao”, sempre per Ediesse.
Buon giorno e grazie per il tempo che ha deciso di dedicarci.
Il testo dell’Italicum uscito dal voto della Camera consegna al Paese una nuova legge elettorale dove la governabilità sembra essere, almeno ad un primo sguardo, l’obiettivo più alto da conseguire, anche a discapito della rappresentanza. Si trattava davvero del problema principale da risolvere nel nostro sistema politico?
Quello della governabilità non era il problema principale da risolvere perché non c’era un reale problema di governabilità; governare non è il mero esercizio del potere di decidere ma anche, e soprattutto, lo sforzo di creare una determinata forma di società, un sapere condiviso, uno spazio dove anche le istanze confliggenti possono stare insieme. L’italicum, invece, non solo punta a realizzare una governabilità intesa solo come potere decisionale ma, soprattutto, il potere decisionale di uno solo, ovvero del premier investito che può governare con un Parlamento che diventa sempre più un semplice luogo di ratifica delle leggi.
Da una forma di governo parlamentare dove il Parlamento svolge una funzione di controllo e, quindi, ha un ruolo dialettico nei confronti del Governo, si passa a una forma di governo e di democrazia tutta incentrata sul premier; si tratta di una scelta funzionale non solo a una riduzione della democrazia, in ambito nazionale ma anche a una riduzione della sovranità nazionale nei confronti dell’Europa. Da un lato il premio garantisce una maggioranza molto ampia e consente, quindi, a uno solo (il premier) di decidere agevolmente; inoltre la si ottiene con un consenso minore, una minore partecipazione dei cittadini e, sul piano politico, anche una minore fatica nella produzione del consenso stesso. Dall’altro lato mettere nelle mani del Governo e del Premier un potere così ampio è anche sintomo di uno spostamento sempre crescente del potere decisionale verso le sedi europee e soprattutto verso i tecnocrati europei.
Le costituzioni nazionali diventano un intralcio, così come le scelte democratiche di un popolo e l’esempio greco lo dimostra perfettamente, dal momento che l’Europa, di fatto, non riconosce il Governo di Syriza (cercando di imporre, per la concessione degli aiuti internazionali, le stesse condizioni che avrebbe accettato un governo del tutto differente, sia per schieramento che per base elettorale).
La scelta di Renzi è la deriva opposta a quella di Syriza ed è estremamente pericolosa perché ha dato luogo a uno spostamento del potere verso le sedi europee; una scelta, peraltro, in linea con tutte le altre scelte fatte dal governo Renzi che, concentrando il potere nelle mani di uno solo, sono tutte caratterizzate da un deficit di democrazia: lo dimostano bene la riforma della scuola dove è il preside che ha il potere di influire sulle scelte dell’insegnamento e il Jobs Act dove è l’imprenditore a poter liberamente decidere di licenziare in qualsiasi momento, nonostante il contratto a tempo indeterminato.
Un premio di maggioranza molto consistente designerà un’unica lista a cui spetterà il compito, più agevole, di governare, a prescindere dal numero di voti realmente ottenuti mentre dall’altro lato, una soglia di sbarramento molto bassa darà luogo a molte opposizioni deboli e frazionate. E’ questo il difetto maggiore dell’Italicum?
E’ il combinato disposto delle due misure a costituire il problema maggiore perché da un lato il premio di maggioranza darà un potere assoluto di governare accaparrandosi la maggioranza assoluta dei seggi mentre le altre liste, pur entrando facilmente in Parlamento, non avranno la possibilità di coalizzarsi e, quindi, saranno condannate a rimanere frazionate e ininfluenti. Si tratta di una legge elettorale pensata sulla configurazione attuale delle forze politiche italiane dove c’è una frantumazione politica sia a destra che a sinistra e, poi, c’è un terzo attore, il Movimento 5 Stelle che, per la scelta di non fare accordi e compromessi con gli altri, rimane comunque una forza a sé stante.
Un altro elemento che compromette seriamente la rappresentatività del voto sono i capilista bloccati. Le correnti interne ai partiti saranno sempre più influenti sulla composizione dell’aula della Camera? Quali saranno le conseguenze più probabili di questo scenario?
Nonostante la minoranza del Partito Democratico abbia molto insistito su questo punto, non si tratta, a mio parere, dell’elemento di maggiore gravità dell’Italicum. Sicuramente si tratta però, di un elemento deprecabile nella misura in cui non costituisce un correttivo di fondo del Porcellum e della sua incostituzionalità. Con il sistema dei capilista bloccati, infatti, specie nelle forze di minoranza, entreranno i soli capilista designati dal partito mentre nell’unico partito che otterrà la maggioranza riusciranno a entrare anche gli eletti con le preferenze.
Si tratta di un meccanismo funzionale a un sistema politico malato, dove la politica è composta da notabili, ossia da pochi uomini forti all’interno di un partito, che nomineranno dei capilista concilianti, e da candidati con un forte potere clientelare che, attraverso la rete di interessi e le influenze sviluppate sul territorio di provenienza, saranno in grado di prendere voti su quel determinato territorio e, quindi, potranno risultare eletti, attraverso il sistema delle preferenze.
In entrambi i casi il cittadino sarà allontanato sempre maggiormente dalla politica e la qualità della rappresentanza, inevitabilmente, si ridurrà, con la conseguenza ultima che la politica sembrerà sempre più una cosa a sé e crescerà sempre di più l’antipolitica; fenomeno, questo, a cui contribuisce anche la crescente spettacolarizzazione della politica, attraverso la conquista della scena da parte di pochi e agli scandali sempre più frequenti.
Dal Patto del Nazareno al voto contrario della minoranza del Pd: questa legge elettorale è stata approvata con una maggioranza sempre meno condivisa. L’Italicum era una legge tanto importante da richiedere un prezzo politico così alto per la sua approvazione?
Credo che uno degli obiettivi di Renzi fosse proprio questo: mettere alle corde i componenti della minoranza del PD, farli contare e riassorbirne una parte. Solo in questo è spiegabile il ricorso al voto di fiducia che è una forzatura delle prassi del Parlamento, soprattutto per la Legge Elettorale che richiederebbe una maggioranza più ampia.
E’ una strategia politica dove la minoranza subisce una pressione indebita e non vede alcuna altra opzione possibile sul campo; la minoranza PD è stata messa di fronte a un aut aut: o dentro e sempre meno influenti o fuori; in questo modo è stato Renzi a determinare la rottura, mettendo alle strette i parlamentari della minoranza PD (e il caso Civati lo dimostra molto bene).
Contestualmente si assiste anche a una trasformazione profonda del PD che non è mai stato un partito del premier o un partito che è cresciuto intorno a una singola figura mentre adesso appare sempre maggiormente come un partito fondato sul disprezzo profondo della rappresentanza e del Parlamento, dando luogo a un cambiamento profondo della prassi politica e del modo di affrontare il dissenso dentro il partito. I rottamatori hanno mantenuto una sola cosa del Partito Comunista, quella peggiore, ossia la disciplina di partito e l’unanimismo. In tal modo si viene a perdere la dialettica interna al partito. Ma il potere, o la governabilità, non può poggiare solo sull’obbedienza all’interno di un partito; tanto meno in Parlamento, producendo l’ennesima violazione della Costituzione (l’art. 67 stabilisce che i membri del Parlamento esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato). Ma la Costituzione, evidentemente, non orienta l’operato di Renzi e del suo governo.
Al deficit di rappresentanza introdotto dall’Italicum si andrà presto a sommare quello di un senato non eletto dai cittadini, con l’approvazione della legge costituzionale che riforma il titolo V° della Costituzione e l’organizzazione della Camera Alta. Quali possono essere le conseguenze e i pericoli più probabili, derivanti dall’interazione e dall’applicazione congiunta di queste due norme nel prossimo futuro?
I primi e più seri effetti dei cambiamenti introdotti da questa legge costituzionale saranno legati al potere di nomina degli organismi di garanzia (Capo dello Stato e Corte Costituzionale) che spetteranno ad un Senato di non eletti. Il Senato sarà, infatti, un Senato di nominati e non un Senato delle Autonomie e risponderà alla stessa logica dei notabilati, di cui parlavamo sopra, che regolerà anche la Camera (composta da capilista scelti e da politici influenti a livello territoriale); la conseguenza ultima sarà che il Parlamento intero non risponderà più alla logica della rappresentanza ma a quella del Governo e della governabilità.
Altro punto estremamente preoccupante sono le scelte che possono maturare sul piano della tutela dei diritti; occorre ricordare come la riforma del titolo V° della Costituzione tolga poteri alle regioni, per riportare alcune competenze al Governo centrale, proprio per questo motivo non c’è nessuna autonomia e non ci sarà nessun Senato delle autonomie.
Non si capisce, infine come faranno i consiglieri regionali e soprattutto i sindaci, a svolgere in modo esaustivo entrambi gli incarichi di cui potrebbero essere investiti, dal momento che, chiaramente, non avrebbero il tempo materiale per farlo.
L’interazione delle due riforme conferma l’intento di fondo dell’Italicum: cambiare la forma parlamentare della democrazia per virarla verso un premierato forte con potere di controllo e negoziazione estremamente ridotto e riservato ai soli notabilati.
La legge elettorale, soprattutto, è stata approvata da una maggioranza anomala, quella del nascente Partito della Nazione, a cui hanno contribuito in modo determinante fuoriusciti dal Scelta Civica e dal M5S. Cosa resta del PD, tradizionalmente inteso, in questo momento e cosa c’è, a suo modo di vedere, nel futuro del Partito Democratico?
Resta poco del PD tradizionalmente inteso anche se il fenomeno Renzi è l’effetto di un processo più lungo che la sinistra italiana ha attraversato dalla fine del PCI. Il cambiamento e il nuovismo che sono il fulcro della cultura renziana, sono stati prima il messaggio e la forma di autorappresentazione della sinistra, lanciati da Occhetto, al momento della fine del PCI. Quello che non mi convince, non da oggi, è che innovare voglia dire ripartire da zero. Non bastia dire che si riparte da zero per fare qualcosa di positivo. In tal modo si buttano via tradizioni, esperienze, tutta una cultura politica insomma, insieme a ciò che si vuole effettivamente oltrepassare.
Nella tradizione socialista, ad esempio, la cultura riformista è stata determinante, ma non ha niente a che vedere con l’attuale retorica, del tutto nominalistica, delle riforme: cambiare per cambiare. E’ perfino banale osservare che ogni nuova legge è una riforma, dal momento che riformula le regole esistenti. Ma nella tradizione della sinistra, riforme erano i provvedimenti che cambiavano le politiche, orientandole in un’altra direzione, presumibilmente più avanzata, e a partire da bisogni e interessi della propria parte sociale. Nella cultura riformista che ha animato il PCI erano tenute in grande considerazione alcune coordinate culturali, ad esempio, le condizioni lavorative, o dei principi, quali l’uguaglianza, per valutare la bontà di una legge.
Il Pd si è configurato, invece, soprattutto nella sua storia più recente, per un riformismo genericamente inteso dove il cambiamento fine a se stesso diviene l’unico strumento di rapporto con l’elettorato. Tale atteggiamento di Renzi e del suo governo, che si comprende a pieno solo svolgendo un’analisi di fondo degli ultimi trent’anni di storia della sinistra italiana, non può essere giustificato dall’opinione sempre più diffusa, non solo negli ambienti politici ma anche nelle fonti di informazione che “almeno Renzi ci prova”. Un’ opinione che è frutto della sconfitta elettorale del 2013.
Aver definito un premio di maggioranza molto elevato fa pensare a un sistema elettorale più adatto a uno scenario politico in cui si alternano due soli grandi partiti piuttosto che una serie molto variegata di forze politiche come avviene in Italia. Queste legge elettorale potrebbe facilitare una ridefinizione dello scenario politico italiano, in direzione bipolare, più di quanto non sia già successo nelle ultime elezioni politiche?
La necessità del bipartitismo è la ragione di fondo di questa legge elettorale, spesso sbandierato da Renzi e da chi ha elaborato e promosso questa riforma elettorale. In realtà però si tratta di un esigenza datata, emersa con il referendum promosso da Mario Segni, all’indomani di Tangentopoli e del crollo della prima Repubblica, quando era stato messo in luce un eccessivo potere di condizionamento riservato ai piccoli partiti (ed esercitato soprattutto dal Partito Socialista).
In realtà la storia politica recente e l’emersione di movimenti politici come la Lega e il M5S dimostrano che i partiti nascono, e si espandono, senza farsi imbrigliare nel bipolarismo o nel bipartitismo e che non si può pensare di arrivare al bipartitismo con una legge elettorale tagliata su misura per questo obiettivo e ignorando, invece, le spinte sociali e le culture del Paese.
La scorciatoia di creare il sistema politico desiderato, attraverso una legge elettorale, è una forzatura che non funziona perché le società contemporanee sono ormai troppo complesse per essere soddisfatte dal bipartitismo; si può comprendere, al limite, la scelta di favorire il bipolarismo, ossia la coalizione, scelta che però non è stata effettuata nell’elaborazione dell’Italicum.
Non è detto, poi, che il bipartitismo sia la scelta migliore, dal momento che in molti Paesi Occidentali il bipartitismo è andato in crisi (lo dimostrano i casi del Regno Unito e della Germania ma anche degli Stati Uniti, ferme restando le grandi differenze di quest’ultimo sistema politico, rispetto agli altri).
La legge elettorale, infine, doveva essere pensata anche considerando cosa potrebbe succedere al Pd, nel caso in cui si trovasse in una posizione di minoranza; in altri termini, fare leva sull’idea del Partito della Nazione, che al momento attuale sembra l’idea vincente, è un’opzione estremamente pericolosa perché in questo caso, il PD si trova di fronte un competitor molto forte: la Lega Nord che, sul modello del Front National di Marine Le Pen, intende assurgere al ruolo di partito che difende l’intera nazione italiana (e non più solo il Nord) sia dagli extracomunitari, sia dall’Europa e dall’Euro.
Grazie per la collaborazione.
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