USA in fermento in queste ore decisive per la sfida elettorale alle presidenziali. Nonostante Sandy sia uno spettro che aleggia ancora nell’aria, gli americani sono pronti a risolvere la competizione tra Obama e Romney. Il vincitore sta per essere proclamato.
Cosa inciderà sul voto?
Alla vigilia del grande giorno, i sondaggi sembrano evidenziare il favorito. Si tratta di Obama, in vantaggio dopo l’efficiente gestione dell’uragano Sandy, tanto travolgente da mettere in ginocchio New York e annullare la tradizionale maratona, che avrebbe dovuto tenersi il 4 novembre.
Ma questo non è tutto. C’è un altro motivo che tiene tutto il mondo con il fiato sospeso per l’esito di queste elezioni. Secondo l’autorevole parere del Financial Times, infatti, l’attuale presidente sarebbe “la scommessa più saggia per uscire dalla crisi”.
Il Financial Times incorona Obama
Secondo il quotidiano economico-finanziario del Regno Unito, Obama sarebbe la scelta più giusta, perché potrebbe “garantire un governo intelligente e riformista di cui il Paese ha bisogno”.
La linea “interventista” seguita in questi quattro anni è stata sicuramente uno dei punti forti dell’attuale Presidente, a cui viene riconosciuto anche il merito delle riforme nel campo sanitario e finanziario, soprattutto grazie al “pacchetto di stimolo da 787 miliardi che ha salvato il Paese da un’altra grande depressione”.
E Romney?
Nonostante l’endorsement al Presidente in carica, il Financial Times critica i due contendenti per avere “osato” poco in questa campagna elettorale: “non hanno fornito risposte convincenti su come intendono rispondere alle sfide economiche e geopolitiche che gli Usa devono fronteggiare”.
Tuttavia è Romney il più biasimato. In particolare, la posizione dello sfidante sembra velata da un’ombra oscura, che diventa un serio interrogativo: chi è veramente Romney? “Il pragmatico moderato delle ultime settimane o il conservatore all’assalto da Tea Party?”. Questa prospettiva, forse, sarà il suo grande autogol.
La stampa, così come, probabilmente, gli elettori non ci vedono chiaro. “Il problema è che è impossibile essere sicuri, visto che la sua immagine sembra dipendere più dalle ricerche di mercato che da una filosofia politica”. Forse la paura di commettere passi falsi, lo ha reso piuttosto contraddittorio o, quantomeno, una scelta “rinunciabile” agli occhi della pubblica opinione.
“L’obiezione più importante è che Mr Romney ha fatto così tante contorsioni per ottenere la nomination del partito che è difficile immaginare come intenda nella pratica governare. Nella sua lista dei desideri vediamo l’aumento della spesa del Pentagono di un quinto, il taglio delle tasse per tutti e allo stesso tempo il pareggio del bilancio. Un’alchimia fiscale che è un esempio di fuga dalla realtà, non una ricetta per una crescita economica sostenibile”. Inoltre “i suoi proclami di politica estera - prosegue il quotidiano - non sono stati affatto rassicuranti", anzi in netto contrasto con quella linea “cauta mostrata da Obama dopo le disavventure dell’amministrazione Bush”.
La parola a Robert Schrum
Questa analogia con Bush è in qualche modo condivisa anche da Robert Schrum, politologo democratico e docente della New York University, che avanza il timore di una presidenza ridotta a un “business plan” qualora la scelta elettorale ricadesse su Romney.
“Ritengo che se Mitt Romney conquistasse la Casa Bianca la sua sarebbe una presidenza come quella di George W. Bush, dove la dottrina “neocon” governava tutte le scelte di politica estera. Questo è rischioso non solo da un punto di vista geo-strategico, ma anche da un punto di vista economico viste le vicende che accadono dall’altra parte dell’Atlantico”.
L’attuale Presidente è considerato ancora una volta la scelta più giusta, anche in funzione dei rapporti con il Vecchio Continente. “Obama ha fatto un lavoro straordinario riportando nel mondo la fiducia e il rispetto nei confronti degli Stati Uniti, ed è partito proprio dall’Europa. Lo ha fatto, inoltre, alla fine di un decennio molto difficile”. L’ipotesi peggiore secondo l’illustre politologo sarebbe la parità, con “il ricorso al Congresso e il rischio di vedere un presidente di un partito e il vice di un altro”.
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