Successione dell’azienda: che succede quando muore il datore di lavoro?

Francesca Nunziati

10/03/2022

10/03/2022 - 18:53

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Successione in azienda: tra aspetti normativi e spunti per una possibile pianificazione aziendale quando il datore di lavoro è ancora in vita.

Successione dell’azienda: che succede quando muore il datore di lavoro?

Quando muore un imprenditore si aprono diversi scenari a seconda che il medesimo sia titolare di una ditta individuale o socio di una società di persone o capitali.

Tutti noi pensiamo che lo sviluppo “fisiologico” della vita di una impresa, con riguardo ai momenti finali, preveda che l’imprenditore, ancora in vita, termini la fase di gestione liquidando tutti i suoi beni. Terminata la vendita dei beni relativi all’impresa, risolti i rapporti e soddisfatti i creditori, l’imprenditore è tenuto così a presentare, entro trenta giorni, la dichiarazione di cessazione dell’attività.

Nella pratica, tuttavia, la cessazione dell’impresa si realizza spesso in modi non così lineari. Il caso, qui preso in considerazione, riguarda la morte dell’imprenditore allorquando l’impresa è ancora attiva. Ci interroghiamo quindi sulle conseguenze e sugli adempimenti che devono essere compiuti in caso di decesso dell’imprenditore/datore di lavoro, aspetto spesso sottovalutato.

La prima questione giuridica da considerare ai fini di un più lucido approfondimento del tema della successione aziendale, è che nell’ordinamento italiano sono nulli tutti quegli accordi con i quali una persona, in questo caso l’imprenditore, ancora in vita, e i suoi successibili ripartiscono il patrimonio dell’imprenditore (immobili, azienda, ecc.) prima della sua morte ma con esecuzione degli stessi accordi dopo la sua morte. Tale divieto è espressamente previsto dall’ art. 458 del codice civile ed e` chiamato “il divieto di patti successori”.

In virtù di tale norma imperativa si prevede quindi la nullità di qualsiasi patto mediante il quale un soggetto disponga della propria successione anzitempo, o rinunci a diritti di un’eredità non ancora maturata.
Il testatore non deve essere vincolato a disporre per testamento sulla base di determinate condizioni contrattuali assunte in vita, proprio perché la sua volontà è libera fino alla morte.

La successione aziendale, quindi, potrà avvenire solo in modo legittimo, seguendo le norme dettate per la successione legittima, oppure potrà trattarsi di una successione testamentaria.

Al di là di alcune eccezioni, che vedremo più avanti, in cui è l’imprenditore stesso a decidere anticipatamente la successione aziendale e dei beni aziendali, saranno gli eredi, una volta deceduto il de cuius (ossia l’imprenditore), a trovarsi dinanzi a situazioni societarie che impongono la conoscenza di norme civilistiche imperative e di operazioni legali e fiscali la cui violazione potrebbe portare a conflitti gravi in sede processuale. Di seguito un quadro generale sui diversi tipi di successione aziendale trattato come spunto iniziale per affrontare il più ampio ed annoso problema del c.d. “passaggio generazionale”.

Cessazione impresa individuale e comunione ereditaria

Con la morte del titolare, l’impresa individuale cessa facendo spazio alla comunione ereditaria che sopraggiunge a prescindere dalla volontà degli eredi.
La comunione ereditaria, ai sensi dell’articolo 485 del Codice civile, inizia quando i chiamati accettano l’eredità. Se l’impresa si eredita come comunione non diventa automaticamente una società. Infatti, in regime di comunione, gli eredi partecipano alla mera amministrazione della società, al godimento diretto e indiretto e alla gestione meramente strumentale dei beni ereditati.

Il passaggio intergenerazionale dell’impresa individuale si caratterizza per una disciplina tributaria differenziata a seconda che l’erede intenda continuare l’esercizio di tale attività oppure cessarla, con liquidazione dei beni aziendali o loro destinazione a finalità estranee. Analizziamo i due casi:

  • Nel caso in cui gli eredi non intendano proseguire l’attività individuale, trova applicazione la lettera h-bis dell’articolo 67 del Testo unico sulle imposte sui redditi (Tuir) che disciplina i redditi diversi. Poiché gli effetti giuridici del decesso non costituiscono fatto generatore dell’Iva, la cessazione dell’impresa individuale non determina la sottrazione dei beni aziendali alla destinazione loro propria e il loro contestuale avvio al consumo familiare o ad altre finalità estranee all’esercizio di impresa. In tal caso quindi, da un punto di vista fiscale, l’Irpef sarà dovuta solo in caso di cessione dei singoli beni aziendali o dell’impresa nel suo complesso. L’importo da dichiarare sarà dato dalla differenza tra il corrispettivo della cessione e il valore fiscalmente riconosciuto dei beni dell’azienda che fanno capo all’imprenditore deceduto. La plusvalenza realizzata verrà tassata pro-quota tra gli eredi, secondo il criterio di cassa, al pari di quanto succede per la generalità dei redditi diversi.
  • Se invece gli eredi del titolare dell’azienda sono più di uno e manifestano la volontà di continuare l’attività dell’impresa, la comunione ereditaria si assimila a una società di fatto. In altre parole sorge una società di fatto tra gli stessi eredi. La società ereditata, in questo caso, deve essere regolarizzata entro un anno in una società di persone o di capitali con necessaria comunicazione e registrazione all’Agenzia delle Entrate. A tal proposito, la Sezione V della Corte di Cassazione si è espressa con la sentenza numero 14889 del 17 novembre 2000. Nella decisione si presume che l’impresa individuale, alla morte del titolare, non cessi con una necessaria fase di liquidazione.

L’attività continua nella forma di comunione, in mancanza di atti formali che facciano configurare una società di fatto tra gli eredi. Il rappresentante legale della comunione ereditaria deve inoltrare, nel termine dei trenta giorni dalla morte dell’imprenditore, la modifica dei dati Iva indicando contestualmente gli identificativi della comunione ereditaria. In genere, la denominazione si attua nella forma di “Comunione ereditaria di” oppure “Eredi di”, facendo seguire il nome dell’imprenditore defunto.

Il rispetto del termine di un anno per la regolarizzazione è, inoltre, fondamentale nel caso in cui l’azienda individuale sia proprietaria di immobili. In questo caso, gli eredi potranno usufruire della tassazione fissa ma, al superamento del termine, verranno applicate le consuete imposte proporzionali con eventuali sanzioni.

Clausole di continuazione nelle società di persone

L’articolo 2284 del codice civile dispone che alla morte del socio sorge l’obbligo per i soci superstiti di liquidare la quota del de cuius. Dunque la morte del singolo socio provoca automaticamente lo scioglimento del vincolo sociale particolare. Ma un accordo successivo o una clausola di continuazione statutaria possono evitare questo effetto. Vediamo quali sono e come si strutturano.

Le cosidette “clausole di continuazione” producono l’effetto della successione dell’erede nella partecipazione sociale del defunto. Chiariamo subito che la clausola di continuazione non rappresenta un patto successorio (non ha natura di atto mortis causa) bensì è una convenzione con effetti immediati, sebbene sospensivamente condizionata alla premorienza del socio.

Dunque, sottoscrivendo la clausola, i soci optano legittimamente per la continuazione della società con gli eredi del socio defunto, rinunciando, prima dell’evento della morte, alla facoltà di sciogliere la società o di continuarla liquidando la quota del socio defunto.

Le suddette clausole possono essere “facoltative” con le quali i soci si privano di ogni possibilità di scelta al momento della morte di uno di essi. Si tratta, nella sostanza, di una autolimitazione preventiva della scelta dei soci superstiti.

Possono anche essere “con obbligo di continuazione per i soci superstiti”, con le quali l’acquisto della qualità di socio da parte dell’erede non è effetto del solo esercizio dell’opzione, bensì anche della stipulazione del relativo contratto, cui i soci si obbligano. La clausola produce sempre l’effetto della continuazione ma, ponendo un obbligo in capo ai soci e non prevedendo una successione automatica per effetto della scelta dell’erede, fa sì che i soci superstiti possano rifiutare la stipulazione del contratto.

Differenti dalle clausole di continuazione sono le “clausole di entrata” con le quali viene posto un obbligo in capo ai soci superstiti, tale per cui questi “dopo la liquidazione della quota dell’erede, sono tenuti a far entrare in società un soggetto determinato (che può anche essere l’erede stesso)”. In questo caso l’ingresso dell’erede nella società si realizza al di fuori di ogni vicenda successoria, dato che la liquidazione della quota chiude definitivamente il vecchio rapporto sociale ed un nuovo contratto si stipula tra erede e soci superstiti. Le clausole in oggetto, dunque, hanno l’effetto immediato di far nascere il diritto alla liquidazione della quota in capo agli eredi.

La successione nelle società di capitali

L’autonomia statutaria in materia di trasferibilità della quota di società per azioni, società in accomandita semplice e società a responsabilità limitata, è stata notevolmente ampliata dalla riforma del diritto societario (D.Lgs. 17.1.2003, n. 6).

Il comma 1 dell’articolo 2355-bis del codice civile prevede che lo statuto di società per azioni possa “sottoporre a particolari condizioni” il “trasferimento” delle azioni nominative e anche “vietarne il trasferimento” ma solo “per un periodo non superiore a cinque anni dalla costituzione della società o dal momento in cui il divieto viene introdotto”.

Diciamo che per le società di capitali vige il principio della libera circolazione delle partecipazioni mortis causa garantendo così una maggiore duttilità della società di capitali per la pianificazione della successione che può essere quindi valutata per tempo con il notaio di fiducia decidendo sul contenuto dello statuto e sull’opportunità di redigere il testamento.

In questa forma societaria sono pienamente ammissibili:

  • Sia clausole che prevedano la liquidazione della quota all’erede in luogo della trasferibilità delle azioni;
  • Sia clausole che limitino tale trasferibilità, come le clausole di gradimento, le clausole di prelazione e le clausole di trasmissibilità a favore di soggetti predeterminati o determinabili. Infine l’articolo 2469 del codice civile dispone che qualora l’atto costitutivo preveda l’intrasferibilità delle quote, o “ne subordini il trasferimento al gradimento di organi sociali di soci o di terzi senza prevederne condizioni o limiti, o ponga condizioni o limiti che nel caso concreto impediscono il trasferimento a causa di morte, il socio o i suoi eredi possono esercitare il diritto di recesso ai sensi dell’articolo 2473″.

Cosa si può fare per la successione quando si è ancora in vita?

Esistono alcune possibilità, oltre al testamento, per l’imprenditore ancora in vita di decidere la propria successione ovviamente nella legalità e senza violare alcuna norma. Questo è sempre auspicabile anche per evitare una frammentazione societaria tra eredi o, peggio ancora, un contenzioso successorio molto conflittuale tra gli stessi.

Alcune opzioni per la successione dell’azienda quando l’imprenditore è ancora in vita sono:

  • La donazione della nuda proprietà a uno degli eredi legittimi o a tutti. Donare la nuda proprietà innanzitutto ha un impatto fiscale ridotto rispetto al donare la piena proprietà, perché si dona un diritto reale minore.
  • Quindi, il valore di quello che viene donato è ridotto dal valore dell’usufrutto, che invece si riserva il donante. Il vantaggio sta nel fatto che donando la nuda proprietà si realizza il passaggio del bene all’atto della donazione e in seguito alla morte dell’usufruttuario l’usufrutto si riunisce in capo al nudo proprietario senza più alcun costo fiscale. Si deve procedere semplicemente con una pratica catastale dal costo di poche centinaia di euro che allinea il catasto alla situazione di fatto, ma non vi sono più costi fiscali”.
  • La costituzione di un trust Il Trust è una sorta di fondo in qui avviene il trasferimento di beni vincolato da un legame che intercorre tra il settlor e il trustee, che è il cosiddetto patto di fiducia; il settlor (disponente) trasferisce l’intestazione (non la proprietà, così come è intesa nel diritto italiano) di quei beni perché vengano amministrati dal trustee nell’interesse dei beneficiari e nei limiti di quanto stabilito nell’atto istitutivo.
  • L’istituto dei patti di famiglia. Questa opzione è specificatamente prevista per l’ambito aziendale. Si tratta di un vero e proprio contratto, e non di un testamento, che consente di anticipare gli effetti della successione aziendale quando si è ancora in vita. Si tratta in sostanza dell’unica eccezione al divieto dei patti successori prevista nel mostro ordinamento. È un contratto stipulato tra l’imprenditore e uno o più dei suoi discendenti con il quale si trasferisce l’azienda in tutto o in parte senza corrispettivo e senza lesionare le quote di legittima.

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