Da sempre le nomine delle grandi partecipate pubbliche costituiscono un difficile banco di prova. Il governo Meloni ha agito al meglio delle sue possibilità?
Dopo tante polemiche che si sono trascinate per settimane, prima surrettiziamente, poi all’appropinquarsi delle scadenze in maniera più evidente, il governo ha indicato i vertici delle cosiddette big five, cioè le principali partecipate dello Stato italiano: Eni, Enel, Leonardo, Terna e Poste.
Claudio Descalzi (Eni), Flavio Cattaneo (Enel), Matteo Del Fante (Poste), Roberto Cingolani (Leonardo) e Giuseppina Di Foggia (Terna) sono stati scelti come amministratori delegati e Giuseppe Zafarana (Eni), Paolo Scaroni (Enel), Stefano Pontecorvo (Leonardo), Silvia Rovere (Poste) come presidenti. Sulle nomine si è scritto tantissimo ed era molta la curiosità nel conoscere i nomi per capire come il governo sarebbe riuscito ad arrivare ad un compromesso tra la competenza e l’inevitabile desiderata dei partiti.
Alla fine, il risultato sembra dettato più dalla competenza e dalla continuità che dalla lottizzazione. È inutile girarci intorno: da sempre sulle nomine delle grandi partecipate il governo di turno fa il bello e il cattivo tempo. Troppe volte si è assistito ad una spartizione di poltrone, che teneva in pochissimo conto la competenza delle persone a ricoprire simili ruoli apicali, che veniva spesso sacrificata all’interesse dei partiti ad avere un diretto controllo sui vertici di società così strategiche per il nostro Paese.
In questo caso poi, la delicata questione del PNNR ha giocato un ruolo molto importante, considerando che molto probabilmente saranno proprio i colossi di Stato a dovere gestire gran parte dei fondi europei, districando una matassa che pareva incunearsi in un vicolo cieco.
Sulle nomine solo su un nome sembravano non esserci dubbi, quello di Claudio De Scalzi, la cui vicinanza con la premier è stata plasticamente mostrata con le recenti visite in nord Africa e negli Emirati Arabi, alla ricerca di nuovi sbocchi per il rifornimento di gas. L’ad di Eni, a parte il suo indiscutibile buon lavoro in questi anni nell’azienda petrolifera italiana, ha dalla sua importanti appoggi internazionali e un canale diplomatico aperto e consolidato con alcuni Stati, che dovranno garantire le future forniture energetiche necessarie per sostituire il gas e il petrolio russo.
Malgrado Salvini avesse provato nelle scorse settimane un timido tentativo di metterlo in discussione, la risposta della premier, di concerto anche con il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, è stata tranchant. Ma mentre sui Eni i giochi erano già fatti, sulle altre partecipate la questione era ancora aperta e si è mostrata più delicata del previsto, e il rischio che si arrivasse ad uno scontro che potesse portare ad un compromesso al ribasso era assai concreto.
Ma la premier è riuscita (grazie anche al lavorio diplomatico del sottosegretario Giovan Battista Fazzolari, una sorta di moderno Mazarino del governo, e che nelle nomine ha avuto un ruolo strategico) a trovare una quadra che non scontentasse troppo gli alleati ma allo stesso tempo che garantisse una guida autorevole alle grandi aziende di Stato. E per fare questo ha dovuto cedere qualcosa soprattutto su Enel (a sentire fonti autorevoli lei alla guida della società elettrica avrebbe certamente preferito Donnarumma) ma alla fine ha tenuto la barra dritta su Cingolani a Leonardo, malgrado il parere contrario di un suo fedelissimo della prima ora, come il ministro della Difesa Crosetto.
Il fatto che la Borsa abbia reagito piuttosto bene a queste scelte operate dal governo dimostra come gli investitori abbiano apprezzato lo sforzo del governo per dare continuità aziendale, senza farsi prendere dalla foga di occupazione che pervade i governi di tutti i colori quando si tratta di rinnovare i vertici delle principali aziende di Stato.
Il governo Meloni, malgrado la breve esperienza, ha voluto dare un segnale differente, e questo segue il solco intrapreso dalla premier in tutta la sua azione di politica interna ed estera in questi primi sei mesi di governo. Al di là delle Cassandre che prevedevano disastri per il nostro Paese, soprattutto a livello internazionale, il governo di centrodestra sta invece dimostrano una concretezza ed una continuità in politica estera ed economica, rispetto a quello tanto esaltato da tutti di Draghi, che sta portando risultati concreti sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista dei rapporti con le istituzioni europee.
Sulle nomine la premier, senza tenere troppo in conto le sirene da parte degli alleati (e in qualche caso anche di esponenti del suo stesso partito), ha voluto mantenere l’identico atteggiamento responsabile e posato che la sta facendo apprezzare sia dalle cancellerie internazionali che dai mercati finanziari. La rivoluzione all’interno della maggioranza che avrebbe certamente dato un segnale poco rassicurante all’estero non è avvenuta, e questa certamente è una buona notizia per un Paese in cui troppo spesso gli interessi di parte tendono a prevalere su quelli comuni.
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