Si possono utilizzare le chat di WhatsApp anche per dimostrare che l’avvocato non ha portato a termine l’incarico che gli è stato affidato.
Le chat di WhatsApp incastrano anche l’avvocato che mente al proprio cliente. La stessa sentenza che prevede si possano utilizzare le chat della celebre app di messaggistica nel processo tributario e che siano validi anche eventuali screenshot delle stesse, avvalora anche la grave condotta del legale nei confronti del proprio clienti.
Il fatto preso in esame, che scaturisce dalla sentenza del Consiglio nazionale forense 376 del 21 ottobre 2024, riguarda un legale che a più riprese ha rassicurato il cliente sull’esito di un ricorso giudiziale che non aveva mai presentato. Le chat WhatsApp con il cliente sono state considerate utilizzabili nel giudizio disciplinare, così come lo sono nei giudizi penali.
Le chat di WhatsApp inchiodano
Si dovrà fare molta attenzione a quello che si scrive sulle chat di WhatsApp poiché ora possono essere pienamente utilizzate come prove in giudizio. Inoltre, anche se le chat non sono più visibili sui dispositivi interessati lo stesso valore può averlo anche uno screenshot, che ha lo stesso valore di una foto (ovviamente ci devono essere le prove che non sia stata manipolata).
Esaminiamo i fatti. Un uomo affida a un legale l’incarico di assisterlo in nella separazione giudiziale con la moglie. L’avvocato, dopo essersi confrontato con il legale della donna, propone al cliente di presentare un ricorso giudiziale per il quale chiede un acconto di 700 euro. Per diverse settimane, poi, il legale aveva aggiornato il cliente con il deposito del ricorso in tribunale chiarendo di essere in attesa che fosse fissata l’udienza.
Dopo qualche tempo, però, l’uomo si era accertato che nessun ricorso era stato presentato e chiede all’avvocato la restituzione delle somme versate a titolo di anticipo via chat WhatsApp. L’avvocato, sulla stessa app, chiede al cliente l’Iban per la restituzione.
Il cliente, però, presenta un esposto all’Ordine degli Avvocati di Vicenza per la violazione degli articoli 26 e 27 del Cdf (non aver svolto l’incarico assegnato e aver fornito false informazioni sull’andamento dello stesso).
La legittimità delle prove con chat WhatsApp
Il legale, chiamato in causa, ha tentato di contestare l’erronea valenza di prova attribuita alle chat WhatsApp (e agli screenshot cartacei forniti per ricostruire i fatti) visto che sono riproducibili o alterabili in modi abbastanza semplici e possono essere utilizzare solo qualora siano verificabili e non contestate.
La sentenza della Corte di Cassazione 8332 del 2 marzo 2020 ritiene che:
“i messaggi ‘whatsapp’ e gli sms conservati nella memoria di un telefono cellulare hanno natura di documenti ai sensi dell’art. 234 cod. proc. pen., sicché è legittima la loro acquisizione mediante mera riproduzione fotografica, non trovando applicazione né la disciplina delle intercettazioni, né quella relativa all’acquisizione di corrispondenza di cui all’art. 254 cod. proc. pen., non versandosi nel caso di captazione di un flusso di comunicazioni in corso, bensì nella mera documentazione ‘ex post’ di detti flussi”.
All’avvocato è stato inflitta una sospensione della professione per due mesi, ritenendo la sua colpa molto grave anche alla luce del fatto che getta un’ombra sull’affidabilità dell’intera categoria. Il comportamento di non svolgere l’incarico ricevuto e di fornire false informazioni al cliente, anzi, viola la dignità e il decoro della professione.
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