La guerra a Gaza spiegata, dalle ragioni dello scontro ai rischi per il futuro

Giorgia Bonamoneta - Luna Luciano

04/02/2024

04/02/2024 - 17:22

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L’Aia non ha obbligato Israele a un cessate il fuoco e la soluzione a 2 Stati è la più popolare, ma cosa vogliono i palestinesi? L’analisi dei docenti all’Università di Roma Tre.

La guerra a Gaza spiegata, dalle ragioni dello scontro ai rischi per il futuro

La terra della Palestina continua a macchiarsi del sangue del suo popolo. A più di tre mesi dagli accadimenti del 7 ottobre, il genocidio dei palestinesi prosegue nell’indifferenza di un Occidente sempre più bloccato nel suo immobilismo politico, mentre Israele rifiuta qualsiasi accordo per un cessate il fuoco.

Mentre continua la macabra conta dei civili palestinesi uccisi (oltre 25 mila), dal 7 ottobre si è scritto e si è detto molto - e non sempre con cognizione - sull’invasione e occupazione militare della Palestina, sulle ragioni storiche e geografiche del conflitto e su possibili previsioni future.

È per tale ragione che abbiamo deciso di intervistare due esperti in materia, entrambi docenti presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Roma Tre: il Professore Gennaro Gervasio, docente di Storia dei Paesi islamici e History and politics of Middle East and North Africa, e il Professore Gianfranco Bria docente in Islamic Law e Islam e Gender.

L’attenzione mediatica distopica dell’occidente: il 7 ottobre nell’area MENA

Il 7 ottobre è stato un shock mediatico per l’Occidente, plasmato inoltre dal paragone israeliano come nuovo 11 settembre. È troppo banale, in fondo, ridurre tutto a quella data, senza prendere in considerazione almeno gli ultimi 75 anni di storia e che ruolo hanno avuto i più recenti accordi di Abramo. Come ci ha raccontato il Professor Gianfranco Bria, queste sono le conseguenze di una dinamica coloniale di lungo periodo:

Ancora oggi, con la questione palestinese, assistiamo a un colpo di coda lungo di una dinamica novecentesca, quella coloniale. Ha avuto varie tappe: la dominazione britannica, le grandi rivolte arabe, la Nakba, la guerra dei 6 giorni e dello Yom Kippur, la crisi di Suez, la guerra in Libano… Tutta una serie di episodi, di guerre, di battaglie che alla fine hanno portato a una recrudescenza dell’attuale situazione”.

Non solo l’Occidente però, anche i Paesi arabi (la zona MENA) hanno avuto un loro ruolo, soprattutto in chiave di strumentalizzazione della situazione palestinese.

Infatti l’intervento dei Paesi arabi, Egitto, Siria, Giordania, Libano nelle sue varie fazioni, non è stato mai risolutivo. Il ruolo di Israele nell’attacco del 7 ottobre non è minoritario. Bria spiega come Israele, appoggiato per vari motivi dagli Stati Uniti, ha avuto un atteggiamento repressivo nei confronti dei palestinesi e ha sfruttato la formidabile potenza militare per consolidare la propria forza sul territorio.

È un paradosso, perché abbiamo a che fare con un progetto coloniale, che si perfeziona nel momento in cui si normalizza - prosegue - Il progetto coloniale israeliano, nei territori occupati, non è più percepito come alterità dagli abitanti. In un certo senso si stava normalizzando anche in Cisgiordania, relegando di fatto a Gaza la situazione di ‘prigione a cielo aperto’, in cui le condizioni di vita (densità demografica, gestione risorse in mano a Israele, embargo delle materie etc) disumane.

Nella condizione di estrema crisi della Striscia di Gaza ha proliferato Hamas.

Secondo il Professor Gennaro Gervasio però entrambe le leadership sono in crisi: il primo ministro Netanyahu è nuovamente al centro dell’attenzione per il processo per corruzione ed è il leader meno popolare della storia di Israele; mentre il movimento di resistenza islamica di Hamas ha agito in maniera (non) imprevedibile per smuovere la carte in tavola.

Dal punto di vista di Hamas, spiega ancora Gervasio, l’attacco è stata una mossa per far presente sia ai nemici che agli amici che contava ancora qualcosa e che l’unico vero dissenso veniva da loro. “Ora questa è una mossa ovviamente propagandistica, ma si dovrebbe aprire una parentesi su chi sono i palestinesi e chi può decidere il loro destino”, conclude.

Gli accordi Abramo hanno avuto un ruolo nella normalizzazione dei rapporti, perché intendevano far rientrare Israele all’interno di un’armonia rispetto agli altri Paesi dell’area MENA, a iniziare dall’Arabia Saudita.

La congiuntura internazionale - come ha spiegato il professor Gervasio - ancora una volta miope, aveva cercato di tagliare i palestinesi dai cosiddetti dagli “accordi di Abramo”. La formula, inaugurata nel 1978 con l’Egitto, era pensata per superare l’isolamento diplomatico di Israele e fare pace con i vicini, ma non con il partner principale (palestinesi). L’Arabia saudita e Israele erano prossimi all’accordo, quando la mossa di Hamas ha riportato il movimento di resistenza e la situazione di Gaza (“Una prigione a cielo aperto” per usare le parole dell’Onu) al centro”.

L’insostenibile paragone tra Isis e Hamas: differenze storiche e pratiche delle organizzazioni paramilitari

Uno dei miti che ha guidato la narrazione occidentale della guerra in Palestina è l’equiparazione di Hamas all’Isis (o Daesh). Un paragone insostenibile ma che fa parte di una chiara strategia mediatica - come ha spiegato il Professor Bria - funzionale a giustificare il massiccio intervento militare a Gaza. L’intento è quello di “disumanizzare l’avversario” assimilando a Daesh, non tenendo conto della realtà.

Esistono sicuramente dei punti di contatto fra Isis e Hamas: “Entrambe le organizzazioni rispondono a quella che è una rilettura moderna, radicale e letterale dell’Islam che non trova precedenti nel pensiero islamico storico”. Ma le distanze tra i due sono maggiori:

Daesh era portatore di un messaggio universale, un’entità transnazionale che richiamava tutti i musulmani del mondo – per fondare un Califfato – Hamas, invece, ha una chiara vocazione nazionale strettamente legata alla questione palestinese. Ancora: i rapporti con i cristiani. Per Daesh i cristiani erano infedeli da sterminare, mentre per Hamas il rapporto è diverso, tanto che molti palestinesi che vivono a Gaza sono cristiani”.

Non solo. Hamas – favorita dal governo di Rabbin per mettere in difficoltà l’OLP di Arafat – è a sua volta un’elaborazione della Fratellanza musulmana, “dunque di un Islam comunitario, impegnato in attività sociali, forniva servizi in una zona come la Striscia di Gaza”. Una risposta identitaria nazionale e sociale che mal si coniuga con gli interessi transnazionali di Daesh, entrando spesso in conflitto.

Hamas è quindi un’organizzazione estremamente complessa divisa in fazioni, i cosiddetti “falchi” e “colombe”, la prima militare, la seconda governativa. Poi è accaduto l’inaspettato: Hamas ha vinto le elezioni del 2006, allora unico attore credibile nell’area di Gaza. Nonostante ciò “Hamas ha sempre faticato a porsi come interlocutore” ed è per questo che nel 2017 ha tentato di porsi come attore credibile, con uno statuto nel quale eliminava alcuni elementi radicali per proporre un’apertura.

Dopo il 7 ottobre, però, tutto è stato rimesso in discussione. Forse, però ci si dovrebbe domandare, se il 7 ottobre non sia stato anche il risultato di una politica internazionale che non ha mai accettato Hamas come interlocutore ai tavoli decisionali politici. Un dubbio destinato a rimanere senza risposta.

L’Occidente tace sul genocidio e non prevede il ciclo della vendetta: a cosa stiamo andando incontro

Mentre Gaza viene rasa al suolo, colpisce il silenzio occidentale. Un Occidente che si è mosso in ritardo, con troppi morti sulla coscienza e troppe richieste di cessate il fuoco non risolutive a causa di Stati contrari, come gli Stati Uniti, e astenuti come l’Italia, che non ascoltano le proteste di chi per strada chiede che questo genocidio termini. Eppure, proprio questo quadro, racconta molto non solo dell’Occidente, ma soprattutto dei nostri governi: è la paura del diverso, dell’Islam, oppure sono gli interessi storici ed economici a guidare le scelte?

Molta della paura non è solo relegata a quello che sta accadendo nella Striscia, ma anche a quello che potrebbe accadere un domani. Il professor Gervasio parla di ciclo della vendetta nel breve periodo. A differenza delle guerre mondiali, anche se i massacri erano nell’ordine di milioni, la cooperazione è stata possibile. Come spiegato dal Professore Gervasio:

Non vuol dire che è impossibile, ma più si dimostra di non considerare l’altro o di non considerarlo allo stesso livello (n.d.r per esempio deumanizzando i palestinesi con definizioni animali o desacralizzando i loro luoghi sacri) più lo strappo da ricucire sarà grande

Il rischio terroristico in Europa e Stati Uniti, anche alla luce delle responsabilità occidentale, è più basso rispetto al terrorismo regionale. Secondo Bria la questione palestinese è un colpo a cuore per tutti i musulmani e “di sicuro ci potrebbero essere degli attacchi. Questi sono tenuti in conto dalle potenze occidentali, che hanno sviluppato apparati di intelligence sempre più pervasivi e sofisticati” per bloccarli.

La (non) soluzione: per due popoli non ci sono due Stati

L’evidente problema della soluzione “due popoli - due Stati” è l’atteggiamento storico israeliano. Se questo fosse stato possibile, sarebbe stato possibile mantenere la spartizione dei territori così come era stato deciso. Dietro alla decisione di colonizzare ciò che resta dello spazio vitale palestinese ci sono interessi economici, ma anche culturali legati al sionismo. Proporre la soluzione “due popoli - due Stati” è quindi anacronistico e infattibile senza un processo di decolonizzazione.

“Se si guarda la cartina - spiega il Professore Gervasio - la soluzione è evidente: le colonie non sono colonie, sono città anche da 40mila cittadini. Non è pensabile che in una notte queste colonie possano essere smantellate”.

Qual è quindi la soluzione più realistica? Una plausibile, forse poco realistica, è la creazione di uno Stato unico, antisionista e fondato su principi democratici, senza distinzione di religione, identità etnica, origini nazionali e status di cittadinanza. Si tratta della soluzione, pensata degli anni Settanta, dello Stato binazionale per tutti.

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