A Palazzo Strozzi l’opera del Beato Angelico produce un effetto raro: non colpisce, ma «cattura». E alla fine cambia il modo in cui guardiamo tutto il resto.
Nei giorni scorsi, di ritorno da Firenze, destinazioni principali: Uffizi e mostra “Beato Angelico” (Palazzo Strozzi, fino al 25 gennaio 2026), mi sono accorto che qualcosa non tornava. Non riuscivo a rimettere in fila le immagini come faccio di solito dopo un viaggio: qualche appunto mentale, due o tre opere simbolo, una sensazione generale. Questa volta no. C’era una sorta di rumore di fondo, un eccesso di stimoli che continuava a lavorare anche a distanza di giorni. E la cosa curiosa è che non era la prima volta, tutt’altro: agli Uffizi, per dire, ci sono stato nove o dieci volte, forse di più.
È proprio questo che rende l’esperienza interessante. Quando torni in un luogo che conosci bene, ti aspetti un effetto di attenuazione. La sorpresa dovrebbe diminuire, l’impatto emotivo anche. Invece, camminando tra le sale degli Uffizi, mi sono trovato davanti a una reazione opposta: non l’entusiasmo del turista alla prima visita, ma una specie di sovraccarico. Come se la familiarità avesse abbassato le difese razionali, lasciando campo libero a qualcosa di più diretto, più fisico.
Davanti a opere che pensavo di avere ormai “archiviato” – la Primavera, la Nascita di Venere, i ritratti di Piero della Francesca – ho avvertito una difficoltà inattesa nel mantenere distanza. Non stanchezza, non noia: piuttosto una sensazione di accumulo. Troppa bellezza concentrata in troppo poco spazio. Un’esperienza che non si lasciava ridurre a giudizio estetico o a commento colto, ma che chiedeva solo di essere attraversata. [...]
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