I 39 Paesi che fanno parte dei «piccoli stati insulari in via di sviluppo» hanno bisogno di aiuti per combattere i cambiamenti climatici.
I 39 Paesi che fanno parte dei «piccoli stati insulari in via di sviluppo» sono preoccupati per il futuro. A causa dei cambiamenti climatici, tra l’altro per colpe non imputabili di certo a loro, ogni giorno rischiano grosso e avrebbero bisogno di aiuti economici concreti che però continuano ad arrivare solo in piccola parte, spesso in modo frammentato e insufficiente.
Si tratta di nazioni insulari che condividono vulnerabilità simili, come piccole dimensioni, risorse limitate, dipendenza dal commercio internazionale e alta esposizione ai disastri naturali e agli effetti del cambiamento climatico. Si dividono in varie regioni: i Caraibi, il Pacifico, e l’Atlantico, l’Oceano Indiano e il Mar Cinese Meridionale. Sono 39, riuniti per negoziare collettivamente a livello internazionale su questioni di loro interesse, come il cambiamento climatico e lo sviluppo sostenibile.
È una rete che coinvolge 65 milioni di persone. Il riscaldamento globale e le sue conseguenze li espongono a disastri naturali. Sono vittime indirette dell’inquinamento globale, dato che sono responsabili di meno dell’1% dell’inquinamento che intrappola il calore portando all’aumento delle temperature sulla Terra. Non hanno colpe eppure sono costretti a fare i conti con i duri effetti del riscaldamento globale, spesso senza le risorse minime per prepararsi.
Secondo un nuovo rapporto del Global Center on Adaptation avrebbero bisogno di 12 miliardi di dollari l’anno per scongiurare rischi, ma nella realtà dei fatti ne ricevono soltanto 2 miliardi, una cifra che limita drasticamente ogni possibilità di pianificazione a lungo termine.
Una bassa disponibilità economica che sta riducendo la loro capacità di difendersi dall’innalzamento del livello del mare. Ad esempio, alcune parti delle Hawaii stanno sprofondando sott’acqua, accelerando il rischio di inondazioni e dimezzando il tempo a disposizione per prepararsi al peggio.
«Siamo di fronte all’innalzamento dei mari, a minacce alla sicurezza alimentare e idrica, e il tempo stringe. L’adattamento rimane la nostra priorità più urgente. È la nostra prima linea di difesa. I risultati sono preoccupanti», ha detto Hilda Heine, Presidente della Repubblica delle Isole Marshall.
Servono 12 miliardi all’anno ma ne arrivano 2
Heine ha spiegato che i soldi di cui hanno bisogno sono modesti, ma il sistema finanziario esistente non è stato creato per loro. Ci sono ostacoli burocratici e regole rigide che li stanno escludendo dal sostegno necessario. Il rapporto della GCA svela che queste piccole realtà hanno bisogno di 12 miliardi di dollari l’anno per proteggersi, ma attualmente ne ricevono poco più di 2 miliardi. Se non si interviene rapidamente, i piccoli stati insulari potrebbero subire danni cumulativi pari a 476 miliardi di dollari entro il 2050, con impatti sociali devastanti.
A peggiorare la loro situazione economica c’è il fatto che il 44% di questi finanziamenti arriva sotto forma di debito, che le nazioni saranno poi costrette a ripagare, pesando ulteriormente su un’economia già in difficoltà.
Sarebbe meglio investire oggi per prevenire i problemi anziché investire domani per riparare i danni del cambiamento climatico, una lezione che la comunità internazionale continua però a ignorare.
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