Mythbuster: atto terzo. Il precariato e la disoccupazione non sono sinonimi

Manuel Zarli

23 Marzo 2014 - 19:19

Il precariato: possibilità di crescita professionale o trappola del lavoro a basso costo?

Mythbuster: atto terzo. Il precariato e la disoccupazione non sono sinonimi

Se gli anni ’90 erano terrorizzati dal buco dell’ozono, dall’AIDS, dalla povertà nel terzo mondo, l’ultimo decennio si è cercato un nuovo nemico: il posto fisso. Ad esso sarebbe preferibile una versione pizza&pomodori del self made man amerikano. Le richieste di una maggiore flessibilità sono state argomentate con le mutate esigenze delle attività produttive. In un’economia costituzionalmente instabile e dominata dalle innovazioni tecnologiche è normale che le mansioni lavorative cambino col passare del tempo e che il lavoratore si ritrovi nella condizione di dover aggiornare le proprie abilità e conoscenze, eventualmente anche per cambiare la mansione lavorativa. Nell’ottica delle imprese la flessibilità si configurava come l’adattamento ripetuto dell’organizzazione della propria esistenza da parte del lavoratore alle esigenze materiali delle organizzazioni produttive sia in termini di occupazione sia in termini di prestazione (salari, orari di lavoro, condizioni di lavoro, mobilità). Nell’ottica del lavoratore la flessibilità avrebbe dovuto garantire la possibilità di ricoprire diverse mansioni nell’arco della vita lavorativa, incrementando le proprie competenze e migliorando il proprio reddito.

Per raggiungere questo obiettivo negli ultimi anni si sono avute più e più riforme del lavoro, da Treu nel 1997 a Maroni nel 2003, con l’obiettivo dichiarato di rendere il mercato del lavoro più flessibile. Lo scopo è stato pienamente raggiunto dato che come mostrano i dati Ocse il valore “strictness of employment protection” relativo alle procedure e i costi dei licenziamenti o delle assunzioni temporanee si è più che dimezzato passando dal valore del 1990 pari a 4,88 al valore del 2013 pari a 2. Il valore della Francia è pari a 3,63, quello della Germania a 1,13, quello del Regno Unito pari a 0,25, la Danimarca è a 1,38, la Svezia a 0,81. Se si considera, invece, il contratto regolare, il valore italiano è sceso da 2,76 a 2,51, mentre il valore tedesco è pari a 2,87, quello francese a 2,38 e quello inglese a 1,03. La Danimarca è a 2,20 mentre la Svezia a 2,61. I dati mostrano che sul precariato l’Italia si sta allineando agli altri paesi, mentre sui contratti regolari è già in linea.

Se l’obiettivo è stato raggiunto, a mancare sono i risultati. Un contratto a termine, infatti, dovrebbe seguire le stesse logiche della finanza: a maggior rischio corrisponde un maggior profitto. Peccato che la pratica smentisca regolarmente la teoria e che lo stipendio di un atipico sia del 25% più basso di quello di un regolare. Lo stipendio ridotto non è l’unica falla alla teoria della flessibilità. Ben lungi da realizzare un’ascesa in termini professionali, la flessibilità del mondo del lavoro è rapidamente divenuta precarietà. Questo termine non è affatto un sinonimo di disoccupazione, ma descrive il progressivo deterioramento delle condizioni lavorative. Essere precari non è una semplice questione di disoccupazione fra un contratto e l’altro, ma vuol dire ricoprire con un contratto a tempo determinato le stesse identiche mansioni dei colleghi a tempo indeterminato seppur con uno stipendio inferiore, senza diritti e tutele di sorta. Fra un contratto a tempo e l’altro, inoltre, non vi è nessuna tutela o forma di sostegno.

Elemento economico a parte, l’idea stessa che sia sufficiente frequentare un corso di sei mesi per riqualificarsi è semplicemente una sciocchezza. I profili lavorativi si possono dividere per livello di studi e conoscenze richieste in basso, medio, elevato. Per passare da un profilo elevato ad un altro i teorizzati sei mesi di corso sono tutto fuorché sufficienti: in quel lasso di tempo un medico non può diventare un ingegnere e un ingegnere non può diventare un medico. Anche allungando il periodo di studi ad un anno il risultato non cambia. Lo stesso meccanismo blocca la mobilità dai profili medi a quelli elevati, ma anche fra i profili medi stessi. In sei mesi un ragioniere non può diventare un perito informatico e viceversa. Non sfuggono alla logica i profili più bassi dato che chi può vantare solo la licenza media inferiore non può coprire in sei mesi un percorso scolastico che dura 5 anni. E se così non fosse sarebbe molto più logico dichiararsi disoccupati a 14 anni e studiare per sei mesi per poi poter accedere ad una posizione lavorativa, piuttosto che coprire lo stesso percorso di studi ma in un arco di tempo molto superiore. La mobilità fra un livello e l’altro, quindi, non può affatto essere conseguita tramite un corso di formazione.

I corsi di formazione, allora, possono essere utilizzati per aggiornare le competenze dei lavoratori, anche se non si capisce perché l’onore tocchi allo Stato e non alle aziende stesse, ma è tutto fuorché un cambio di lavoro. Il cambio di lavoro lo si potrebbe conseguire per i profili di basso livello, ma nel caso specifico un corso di sei mesi sarebbe uno spreco. Non servono di certo sei mesi per ricoprire la mansione di cassiere o di fattorino porta pizze. Il corso sarebbe utile anche nei profili lavorativi non coperti dal sistema scolastico come quelli relativi all’HR dato che le job description richiedono, ad esempio, indifferentemente una laurea in psicologia o in lettere e filosofia. Queste situazioni indicano che si dovrebbe anche avviare una riflessione sullo scollamento fra il sistema scolastico e il mondo del lavoro, quale che sia il livello di studio. La beffa finale, infine, viene dal fatto che non basta il corso di sei mesi per accedere ad una delle fantomatiche posizioni lavorative scoperte tanto care ai media. Non si può diventare un falegname in una manciata di mesi, né tantomeno un pasticcere.

Dinnanzi a questo fallimento i sostenitori della flessibilità si guardano bene dal fare mea culpa e adottano come risposta due tipologie argomentative differenti e complementari. La prima evidenzia il fatto che il sistema della protezione sociale sia del tutto carente e che non siano mai state implementate reti di sicurezza sociale, la seconda punta l’indice sull’esistenza di un mercato del lavoro duale fra lavoratori non garantiti toccati dalle nuove riforme e quelli garantiti rimasti al sistema precedente. Per superare il problema gli economisti Boeri e Garibaldi propongono l’istituzione di un contratto unico a tutele crescenti con presunta libertà di licenziamento previo indennizzo economico, l’adozione di un salario minimo orario e la creazione di un rete di ammortizzatori sociali. Il giurista Ichino, inoltre, volge lo sguardo al Nord e punta a replicare l’esperienza danese della flexycurity: oltre alle garanzie sociali vi sarebbe il servizio di outplacement per il ricollocamento e la qualificazione dei disoccupati.

Queste proposte, tuttavia, sono palesemente contraddittorie. Le misure di sostegno al reddito e i salari minimi sono in totale contrasto con la logica del libero mercato e con la demenziale idea che basti il mitologico mercato a dirimere ogni questione, mentre non si comprende per quale motivo i contratti del lavoro dovrebbero avere tutele crescenti nel tempo. Se il mercato del lavoro richiede la flessibilità per via dei cambiamenti avvenuti nel settore economico la si dovrebbe garantire in ogni momento della carriera lavorativa e non solo all’ingresso. A meno che, ovviamente, non si riconosca implicitamente che la flessibilità non è alla portata di tutti e che senza i correttivi statali il mercato del lavoro degenererebbe rapidamente nel caos.

La flexycurity, inoltre, costa e non è infallibile. I paesi che hanno adottato questo sistema sociale, la Svezia e la Danimarca, sono caratterizzati da un tasso aggregato di tassazione maggiore rispetto a quello italiano e un’elevata incidenza della spesa pubblica sul Pil (la Svezia supera il 50%, la Danimarca è prossima al 60% contro il 50% italiano). Se si considera i dipendenti pubblici, in Italia ve ne sono 58 ogni 1.000 abitanti con un incidenza sulla forza lavoro pari al 14,2% contro i 135 della Svezia e una percentuale del 26,2%. La Svezia non è un caso isolato dato che la Danimarca vanta una percentuale addirittura maggiore pari al 26,8%. O lo svedese (e il danese) medio è così stupido che per fare il lavoro di un dipendente pubblico italiano servono due svedesi, o molte persone che escono dalla flexycurity vengono accasate direttamente non solo dal pubblico ma anche nel pubblico. A rigor di logica l’adozione di questo sistema sociale si tradurrebbe, allora, in un incremento della spesa pubblica e del numero dei dipendenti pubblici e sarebbe curioso sapere perché i sostenitori della flessibilità siano soliti omettere questo dettaglio. A dispetto di questa mole di denaro si registra in ogni caso una disoccupazione giovanile prossima al 15% in Danimarca e superiore al 20% in Svezia.

Ma il vero nemico della flessibilità lo si può ritrovare nelle aziende stesse. L’immotivata pretesa da parte delle aziende di richiedere esperienza pluriennale per ogni posizione lavorativa blocca ogni possibile passaggio da un’attività economica all’altra. Questo elemento pone termine alla discussione che basti riqualificarsi, poiché ogni conoscenza acquisita sfuma contro la mancanza di esperienza. La semplice esistenza degli inattivi, insomma, dimostra quanto sia inutile perdere tempo in corsi professionali già disponibili, ma che a nulla servono.

Gli elementi fin qui analizzati dovrebbero invitare alla cautela, ma appare palese che la strada intrapresa sia un’altra. La riforma Fornero ha tentato di ridurre il precariato, ma il job act renziano vuole eliminare queste misure. Il perché è piuttosto evidente: buone parte delle aziende italiane sono in grado di competere solo abbattendo il costo del lavoro. E quale migliore misura della disoccupazione?

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