Secondo uno studio della Bocconi il 16% delle Pmi è stato spazzato via dalla crisi e solo il 2% riesce a crescere sopra la media. Ma per i curatori "ci sono 9mila imprese pronte per guidare la ripresa".
Una lotta, dura, per sopravvivere. Una selezione naturale che taglia le gambe, ma da cui, se ne esci vivo, ne esci rafforzato. E’ questa la fotografia delle piccole e medie imprese italiane dal 2007 ad oggi scattata dall’Osservatorio sulla competitività delle Pmi, promosso dal Knowledge Center della Sda Bocconi.
Nel 2007, l’anno zero della crisi economica c’erano in Italia 55.709 Pmi con fatturato tra i 5 e 50 milioni di euro.
8841, il 16%, non ce l’hanno fatta, schiacciate dalle macerie della recessione, e ora sono 46868.
In termini molto più pratici vuol dire che sono andati persi 120 miliardi di euro di fatturati e quasi mezzo milione di posti di lavoro.
Ma chi è sopravvissuto, spiega lo studio della Bocconi, si è rafforzato, registrando una crescita cumulata del 26%, il 4,8% all’anno.
Quello che non uccide fortifica
I ricercatori della Bocconi guidati da Federico Visconti hanno filtrato le Pmi italiane secondo diversi requisiti, creando tre categorie di “sopravvivenza” in base ai tassi di crescita.
Nella prima, metà delle PMI italiane hanno registrato una crescita positiva durante il quinquennio 2008-2013, nella seconda circa il 3,2% delle imprese ha avuto tassi di redditività sopra la media mentre nella terza categoria, la più sorprendente, il 2,5% delle Pmi italiane ha avuto un rapporto tra debito e margine operativo lordo di molto inferiore alla media.
Stiamo parlando in questo caso di quasi 1200 imprese, che sono riuscite a crescere del 77% dal 2007 – quindi il 12% annuo – raddoppiando la redditività operativa rispetto alle altre aziende italiane.
Il “club” delle migliori, per l’esattezza 1165, si concentra nel Nord-Est del Paese: in Veneto soprattutto, ma anche in Emilia Romagna, Piemonte e Liguria.
Caratteristica comune degli appartenenti al “club” è la spiccata vocazione internazionale e all’export, all’innovazione e alla ricerca.
Ma anche questo non basta, perché la maggior parte delle aziende della “terza categoria”, ha almeno 10 anni di storia ed è concentrata nei settori del manifatturiero e del commercio all’ingrosso.
Ma non è solo il "club" delle migliori a far vedere il bicchiere almeno mezzo pieno.
Secondo lo studio ci sarebbero 7500 Pmi con una struttura molto solida che non riescono a crescere come potrebbero, quindi, come
come spiega uno dei curatori dello studio, Fabio Quarato:
“Arriva un messaggio positivo sul rilancio del nostro tessuto delle Pmi, perché significa che in tutto ci sono 9mila imprese che sembrano avere le carte in regola per cogliere la ripresa”
Ma le incognite rimangono ancora molte, e il peso di quelle che non ce l’hanno fatta ricade su chi è rimasto in piedi.
Osserva Gregorio De Felice, capoeconomista di Intesa Sanpaolo:
“La grande capacità delle Pmi italiane è sempre stata quella di reagire, ma da questi dati emergono anche elementi di grande preoccupazione. Oltre al 16% delle Pmi che ha già chiuso, le imprese in perdita sono salite dall’11 al 16,7%, quelle con una redditività inferiore al 5% dal 18,2 al 28,6%. Temo che la selezione non sia finita”.
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