L’Islanda non vuole far parte dell’Unione Europea e annulla il referendum. I cittadini, anche se contrari all’adesione, protestano per affermare i propri diritti
L’euroscettismo ormai è divenuto una realtà talmente estesa da non poter più essere ignorata. Da ogni dove si elevano voci di critica e biasimo nei confronti di quelle regole che alcuni considerano le vere cause della crisi che ha afflitto gran parte dei paesi del continente, quelli del sud in particolare.
Ma stavolta a farsi portavoce del dissenso anti-UE è la piccola Islanda, estremo nord del vecchio continente che, dopo aver richiesto nel 2010 l’entrata nell’Unione, ha deciso di fare marcia indietro.
A dire il vero, i colloqui erano già stati interrotti tempo fa, ma la scelta del Governo islandese di annullare il referendum che avrebbe dovuto interpellare i cittadini sull’entrata nell’UE, ha suscitato molto scalpore.
A Bruxelles sembrano non averla presa per niente bene, anzi. La mossa dell’Esecutivo di Reykjavik rappresenta l’ennesimo motivo di frizione, dopo le incomprensioni sulle quote della pesca, considerata dall’Islanda uno dei settori chiave per l’economia nazionale.
Ma per capire cosa sta succedendo in Islanda, occorre fare un passo indietro.
Tra centrodestra e centrosinistra
Nel 2010 l’allora Governo in carica, guidato da una coalizione di centrosinistra, aveva iniziato l’Iter che avrebbe portato il Paese scandinavo ad aderire all’Unione Europea. Le successive elezioni politiche hanno però portato al potere una rappresentanza euroscettica di centrodestra, formata da centristi e conservatori.
Questi ultimi, nel corso della loro campagna elettorale, avevano promesso ai cittadini che, in caso di vittoria, avrebbero indetto un referendum per consentire loro di esprimere il proprio parere sulla questione.
Ma nei giorni scorsi il Governo guidato da Sigmundur Gunnlaugsson ha deciso di sospendere il referendum perché secondo lui:
Star fuori dalla Ue è il miglior modo per tutelare gli interessi islandesi
La protesta
Questa scelta ha scatenato una mobilitazione di massa talmente ampia da aver lasciato di stucco anche i vertici politici della Nazione. 30mila persone (pari al 10% della popolazione) sono scese in piazza per protestare contro l’abolizione del referendum.
Ma a questo punto occorre fare una precisazione: la protesta in atto non è dovuta alla volontà dei cittadini di entrare nell’Unione Europa, i sondaggi dimostrano infatti che la maggioranza della popolazione è contraria all’adesione, bensì alla rivendicazione del loro diritto di autodeterminazione.
Il Governo ha tradito le promesse che aveva fatto e gli islandesi non ci stanno. Benché non vogliano far parte dell’Unione, vogliono comunque affermare il loro diritto di esprimere un parere sulla questione, rivendicando i principi che stanno alla base della democrazia.
La diatriba non può non farci pensare a quello che è successo in Italia poche settimane fa, quando invece di andare alle urne è stato nominato il terzo Governo tecnico degli ultimi tre anni. Da noi però nessuna protesta, solo un’ondata di malumore che sta via via diluendosi nella speranzosa attesa che il Governo Renzi riesca a fare qualcosa di buono.
In Islanda invece la cose stanno andando diversamente. Il Governo non ha intenzione di cedere e di indire un referendum che considera inutile, ma i cittadini continuano a farsi sentire.
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