Gli Indipendenti hanno abbandonato Joe Biden

Glauco Maggi

12 Ottobre 2021 - 07:24

Chi sono gli Indipendenti nell’elettorato americano e perché hanno abbandonato il presidente Joe Biden?

Gli Indipendenti hanno abbandonato Joe Biden

Sono gli Indipendenti, negli USA, una razza in via di estinzione? A leggere soltanto i titoli dei giornali sembrerebbe di sì, con tutto lo spazio dato alla battaglia in parlamento sui 5 trilioni di dollari di welfare voluti da Biden e dal gruppo dei 95 deputati progressisti Democratici.

Sembra che ci siano soltanto loro, fronteggiati da un paio di Senatori Dem e dall’intero GOP.

I deputati Democratici alla Camera sono però in tutto 220, contro i 212 Repubblicani (3 seggi sono vacanti), mentre al Senato sono 50 per parte.

Grazie ai sondaggisti della Gallup, e alle loro periodiche fotografie dei sommovimenti politici nel corpo elettorale, si può comunque conoscere una storia vera, o almeno più vicina al vero, sulla geografia ideologica, in continua evoluzione, del Paese. E come si dichiarano politicamente gli elettori oggi non sembra riflettere più la composizione parlamentare uscita dal voto del novembre scorso.

Le rilevazioni Gallup nel corso del primo trimestre 2021, quando era appena entrato alla Casa Bianca il nuovo presidente, dicevano infatti che il 49% degli americani adulti si identificava con il partito Democratico: il 30% pienamente e il 19% come “indipendenti che tendevano verso il partito di Biden”. Dall’altra parte, solo il 40% degli interpellati diceva di essere Repubblicano (il 25%) o indipendente che tendeva verso il GOP (15%). Il distacco di 9 punti tra DEM e GOP all’inizio dell’era Biden era il maggiore dal 2012, a fronte di un vantaggio che negli anni recenti era solito oscillare tra i 4 e i 6 punti.

Da fine marzo a settembre c’è stato un terremoto. Coincidente, e non è un caso, con la discesa dell’approvazione di Biden nei sondaggi. Il sondaggio Quinnipiac della settimana scorsa dice che Biden ha il 38% di approvazione come presidente, con il 53% di disapprovazione. Sulla gestione dei confini, solo il 23% è con lui, contro il 67% che lo condanna.

In economia, lo promuove il 39% e lo boccia il 55%. Alla domanda “l’amministrazione Biden è stata competente nel condurre il governo?”, soltanto il 42% ha risposto di sì, contro il 55% di no. Come stupirsi allora se, secondo Gallup, gli elettori che dicono di riconoscersi nel partito DEM sono scesi al 29%, percentuale identica al livello raggiunto dal basso di chi si dice Repubblicano? E gli altri? Gli auto-definiti indipendenti sono il 41%, quindi non sono affatto estinti. Del resto, un altro modo per definirli è «elettori che valutano i politici, e le loro politiche, caso per caso».

La “radicalizzazione” tra la destra e la sinistra, a cui si assiste all’interno della rappresentanza politica americana a Washington, sembra quindi rispecchiare sempre meno la realtà degli umori generali a livello di opinione pubblica. E a chi va attribuita la causa di questa discrepanza? In larga misura al meccanismo elettorale che favorisce gli estremismi e gli estremisti. Le primarie sono uno strumento di selezione democratica diretta all’interno dei partiti, e i partecipanti a questo voto di primo stadio sono di solito la componente più impegnata, militante, con le idee più chiare e più forti, e con più voglia di far vincere la propria causa, collimante o meno che sia con il pragmatismo, la moderazione, il buon senso della gente normale, a-ideologica.

Lungi da me criticare il sistema americano. Considero il bilancio dell’esperienza ultrasecolare della Costituzione e della democrazia USA, in perenne divenire, un modello per il mondo. L’America del resto parla da sé con i suoi risultati storici: dall’economia libera alla scienza accademica e applicata, dai diritti umani alla difesa delle libertà. La testimonianza del suo successo e della sua «indispensabilità», paradossalmente, la si misura con la pressione dei milioni di persone che si accalcano al confine con il Messico dal misero sub-continente, e degli altri milioni in giacca e cravatta, dall’Europa e dall’Asia, che si iscrivono alla lotteria per vincere la Carta Verde.

La dinamica per lo svolgimento della missione storica USA, tuttavia, vive del costante travaglio del confronto fra le idee al suo interno. Vive del rito sacro delle scelte di rappresentanti con nome e cognome. E degli appuntamenti che non ammettono deroghe temporali: le urne hanno i ritmi immutabili nel calendario della politica, come i solstizi e gli equinozi nella fisica dei corpi celesti. Che si debba votare ogni due anni per il Congresso (potere legislativo) e ogni quattro per la Presidenza (potere esecutivo) gli americani l’hanno messo, non solo nelle leggi, ma nella testa di ogni cittadino. È persino fissato il giorno elettorale: il martedì successivo al primo lunedì di novembre.

Al rigore dei tempi va poi aggiunto il contesto del federalismo, e quello americano è storico e fondante, basilare. Nella cornice istituzionale generale fin qui descritta, la vittoria o la sconfitta di una parte politica è un esito che si tende a dare statisticamente per scontato nella grande maggioranza degli Stati: ci sono quelli «rossi», pro Repubblicani e quelli blu, pro Democratici.
Infatti, il tema ricorrente delle elezioni presidenziali è individuare quegli Stati swing, o ballerini, nei quali i due candidati finiscono per giocarsi la vittoria.

Chi può in effetti sparigliare la partita del voto finale sono proprio i negletti Indipendenti. Che tendono a non partecipare alle primarie, anche dove potrebbero, ma che alle urne alla fine ci vanno. E pesano, visto quanti sono. Biden, se pensa a ricandidarsi, dovraà fare i conti con loro: nel novembre 2020, secondo Henry Olsen dell’ Ethics and Public Policy Center, Biden aveva un vantaggio di oltre dieci punti su Trump in questa fetta di elettorato, mentre oggi è sotto di ben 13 punti, con il 52% degli Indipendenti che disapprovano il suo lavoro da presidente, e meno del 40% che lo approvano.

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