Sono passati 22 anni dalla strage di Capaci che portò alla morte di Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo e dei tre uomini della scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. 23 maggio, giorno di memoria e di rabbia
Il 23 maggio 1992 avevo solo cinque anni, eppure ricordo tutto di quel giorno. È strano come oggi quelle immagini, quelle sensazioni siano ancora vive nella mia mente. Ero troppo piccola per capire, ma non per percepire che stava accadendo qualcosa di tremendamente sbagliato.
Seduta a tavola mentre mia madre fa tutto quello che fanno le mamme in cucina, finisco la mia merenda e gioco con qualsiasi cosa mi capiti a tiro. Un pomeriggio normale di una giornata normale.
All’improvviso sulla porta appare mio padre. Ha uno sguardo strano, preoccupato, al limite dello sgomento. È pallido. Papà, con quella carnagione ambrata tipica dell’uomo siciliano che gli invidio da una vita, non è mai pallido.
C’è qualcosa che non va. “Che è successo?” Chiede mamma. “Hanno ammazzato Falcone, accendi la TV”. Poche parole e “boom”, la normalità di quel giorno va a farsi benedire di fronte a immagini che una bimba non dovrebbe vedere, ma che un’adulta ha il dovere ricordare. Perché di normale quel 23 maggio non ha più avuto niente nei 22 anni a seguire.
Ciò che ricordo più chiaramente di quel giorno è il silenzio. Dal momento in cui la televisione iniziò a trasmettere a ripetizione tutto ciò che era accaduto e che stava accadendo in casa mia nessuno proferì più una parola. Silenzio e basta, perché non c’era niente da dire. Silenzio e basta perché a volte lo schifo, sì lo schifo, la rabbia, la paura si devono fermare di fronte al rispetto nei confronti di un uomo onesto, di sua moglie e di tre uomini che hanno perso la vita per guadagnare un milione di lire al mese.
Dopo quel 23 maggio ho percorso migliaia di volte l’autostrada che collega la mia Catania alla sua Palermo. E ogni volta, arrivata all’altezza dello svincolo che porta a Capaci, non riesco a fare a meno di alzare di poco lo sguardo e soffermarmi un attimo su quel cartello verde che evoca le immagini di quel giorno e le sensazioni che percepivo, ma non capivo.
Come siamo bravi oggi a “riempirci la bocca” col Giudice Falcone. Memoria, lodi, affetto, riconoscimenti, aeroporti a suo nome, strade, piazze. Giovanni Falcone (e Paolo Borsellino con lui) è diventato il simbolo dello Stato che non si piega e che continua a combattere l’illegalità. Cosa importa se quand’era vivo era tutto diverso, se erano ben altre le espressioni che gli venivano riservate e gli sguardi che doveva sopportare perché aveva stupidamente pensato di cambiare la sua Palermo e insieme a lei l’Italia intera.
Sono passati 22 anni e oggi in lungo e in largo le televisioni nazionali ripetono sempre la stessa frase: “Giovanni Falcone vive”.
Ed il punto è che è vero. Giovanni Falcone vive ogni volta che un mafioso viene messo in galera, che un cittadino normale decide di ribellarsi all’illegalità, che un ragazzo che nel 1992 non era ancora nato esprime tutto il suo disprezzo nei confronti della mafia, che i valori per cui si batteva vengono rispettati e onorati come si deve.
Ma Giovanni Falcone vive anche quando qualcuno propone sconsideratamente di abolire il 41bis per risolvere i problemi delle carceri italiane, di alleggerire la pena per il reato di concorso esterno perché considerato “una montatura della magistratura” (citazione testuale), di trovare qualche escamotage per permettere a personaggi accusati di collusione e connivenza di occupare gli scranni del Parlamento.
Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tutti gli altri continuano a vivere sempre, non solo quando la loro memoria serve come strumento per arrivare a qualche scopo.
Oggi, l’Italia intera onora l’operato di Giovanni Falcone e di tutte le altre vittime della mafia. Giusto, giustissimo. Il problema è che nel corso di 22 anni il modo migliore per onorarlo sarebbe stato cambiare questo Paese ed estirpare tutto ciò che ha concorso a causare la sua morte.
Perché il rispetto, la stima e la memoria di una persona non si esprimono solo attraverso proclami e parole commoventi. Ma si dimostrano anche lavorando in silenzio per perpetuare le sue azioni e magari sopperire a tutte le ingiustizie che ha dovuto subire quand’era in vita.
Onorare Giovanni Falcone significa cambiare l’Italia. Ma l’Italia non cambia. Eppure, come farlo, ce l’aveva suggerito lui stesso:
La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine.
Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni.
Volete onorarlo? Ascoltatelo.
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