Financial Times: una vera spia spiega il datagate

Vittoria Patanè

28 Ottobre 2013 - 12:24

In un articolo intitolato "I politici dovrebbero soppesare il costo delle intercettazioni" il Financial times lascia la parola a Ivo Daalder, ex ambasciatore USA alla Nato che questo lavoro l’ha fatto sul serio.

Financial Times: una vera spia spiega il datagate

In tutta Europa, gli ufficiali del governo stanno mettendo in atto la loro migliore interpretazione di Capitan Renault del film Casablanca, che si dichiarò “shockato – shockato” quando apprese dell’esistenza di una bisca.

Più che su una bisca, però, i leader europei stanno esprimendo il loro stupore riguardo la rivelazione che nazioni – anche alleate – si spiano tra loro.

Parte della sorpresa potrebbe arrivare dal fatto che le accuse sulle intercettazioni americane di cellulari appartenenti agli ufficiali sono arrivate nello stesso momento – e apparentemente dalla stessa fonte – delle precedenti rivelazioni riguardati la raccolta dati globale e la sorveglianza messa in atto dalla National Security Agency, come parte degli sforzi statunitensi contro il terrorismo. Presumibilmente, ascoltare le conversazioni dei leader alleati non ha niente a che fare con la lotta al terrorismo.

Nello stesso tempo, ci sono domande legittime da fare sugli effetti sulla privacy della raccolta dati dell’intelligence americana nei paesi stranieri. Mentre gli americani si godono le loro protezioni legali e costituzionali contro l’invasione della loro privacy, gli altri – compresi alleati e amici degli USA – non hanno la stessa possibilità.

Ma le due questioni non vanno confuse. Tutti i governi raccolgono informazioni sulle attività e i pensieri degli altri governi – si, anche degli amici e degli alleati. È un lavoro di diplomazia che aiuta a capire cosa sta succedendo e perchè, nelle Nazioni in cui stanno servendo.

Contingenti militari vengono mandati nei paesi stranieri con l’incarico di scoprire cosa sta succedendo con le forze armate e i loro equipaggiamenti. Allo stesso modo, agenti dei servizi segreti vengono inviati all’estero per raccogliere dati dall’interno e dall’estero.

Certo, diplomatici, militari e spie cooperano con le loro controparti nei paesi alleati su parecchi fronti. Nel caso di ufficiali dei servizi segreti, questo include la condivisione di informazioni sulle minacce terroristiche e su altri pericoli – comprese informazioni che potrebbero essere state acquisite attraverso attività svolte in paesi ospiti.

Molto del loro tempo viene impiegato per scoprire cosa sta succedendo nei paesi in cui sono stati assegnati, cosa pensano i rappresentati sulle questioni politiche del giorno; quali pressioni esistenti all’interno delle varie società potrebbero influenzare le decisioni politiche su questi problemi; e si, quele atteggiamento potrebbero prendere nelle negoziazioni che coinvolgono entrambi i paesi.

In qualità di Ambasciatore Americano alla Nato per quattro anni, ho passato gran parte del mio tempo parlando e ascoltando i miei colleghi mentre tentavano di capire le posizioni di, e le divisioni tra, nazioni alleate su molte questioni critiche, dal futuro impegno delle truppe in Afghanistan alla possibile cooperazione nelle operazioni militari in Libia. Nelle nostre comunicazioni a Washington, abbiamo riportato tutto ciò che abbiamo appreso in modo che gli Stati Uniti potessero formulare politiche che avvantaggiassero i nostri interessi e avessero l’opportunità di essere supportati da alleanze. E non ero l’unico a farlo. Ogni ambasciatore e diplomatico svolge un ruolo simile.

Niente di questo dovrebbe sorprendere i leader europei. La sola domanda è se questo sistema di spionaggio debba essere considerato parte di questa attività informativa. E, in caso di risposta affermativa, se questo dovrebbe includere anche lo spionaggio dei più alti livelli di Governo.

Anche se, come suggeriscono le prove, questo spionaggio tra alleati ci fosse stato davvero, questo dovrebbe sorprendere qualcuno? Dopotutto, il dizionario Webser definisce la spia come qualcuno “che cerca segretamente di prendere informazioni su un paese”. E, come ha detto il Presidente Barack Obama quando le prime accuse sono emerse: “io ti garantisco che in Europa ci sono persone che sono interessate a sapere, se non cosa mangio a colazione, almeno quale dovrebbe essere la mia posizione dopo un meeting con i loro leader”.

Quindi la questione non è se i governi dovrebbero collezionare o collezionano informazioni gli uni su gli altri; lo fanno e e fanno bene a farlo. E raccolgono e fanno bene a raccogliere dati provenienti da nazioni amiche proprio come li raccolgono in nazioni nemiche. La questione è se intercettare i telefoni dei leader è il metodo più efficace per raggiungere tale scopo – e se il costo della rivoluzione pubblica è peggiore del beneficio di acquisire queste informazioni. Data la pubblica condanna degli ultimi giorni, ci sono ottime ragioni per pensare che il gioco non valga la candela.

Più in generale, qualcuno potrebbe sperare e aspettarsi che questa analisi costi-benefici sia svolta sempre prima di decidere di entrare in questa raccolta di informazioni segrete. Chiaramente se e quando farlo è una decisione politica, che non dovrebbe e non può essere lasciata agli ufficiali e alle agenzie di intelligence. È quindi importante per i nostri leader politici stabilire quali processi siano necessari per garantire la sicurezza. Questo giudizio deve sempre arrivare prima che attività del genere siano autorizzate.

Il fatto che possiamo fare certe cose non significa che dobbiamo sempre farle.

Traduzione a cura di Vittoria Patanè. Fonte: Financial Times

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