Il web ha compiuto un quarto di secolo e ad oggi la sharing economy vale 110 miliardi: ritorno al futuro.
Il passaggio al mondo economico digitale è solo questione di tempo. Si tratta di una transizione che avverrà seguendo una crescita esponenziale. Una ri-evoluzione che ebbe inizio venticinque anni fa, il 12 marzo 1989, quando Tim Berners-Lee depositò la proposta del Word Wide Web al Cern di Ginevra. Nel 1993, i suoi diretti superiori al CERN vennero interpellati, nel corso di un’intervista della RAI, sulla possibilità che il CERN promuovesse, anche con fondi speciali di ricerca delle Commissioni Europee, l’idea del Word Wide Web e la sua promozione industriale. L’allora direttore del CERN, il fisico italiano Carlo Rubbia, disse che non riteneva compito del CERN promuovere quella pur brillante idea. Tim Berners Lee accettò l’offerta di Mike Dertouzos del MIT, lasciando il CERN per il Laboratory for Computer Science (LCS) del prestigioso Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston, presso cui nel 1994 fondò il World Wide Web Consortium (W3C). Ad oggi, il regalo più interessante da scartare è l’innegabile incidenza del web sulle relazioni economiche e sociali.
Le multinazionali che attualmente comandano il mercato, potrebbero perdere questa posizione di dominio proprio grazie al World Wide Web; non male come possibilità, specie per quelle aziende determinate a raggiungere risultati ambiziosi.
Peter Sondergaard, capo della ricerca del Gartner group, la società di consulenza dell’information technology, sostiene che tra circa sei anni ogni azienda leader dovrà essere un’azienda leader digitale, diventando parte integrante dell’information technology.
Al momento, nel Billlion dollar start club, il club delle 30 start up il cui valore è stimato in oltre un miliardo dai big del venture capital, ci sono sei società legate all’internet mobile e all’e-commerce, cinque di stoccaggio e protezione dei dati e sette legate alla sharing economy, ossia fondate sull’economia della condivisione e del consumo collaborativo.
Un concetto, quello della condivisione, che dal mio personale punto di vista si abbraccia a quello del territorio come variabile indipendente: l’utilizzo del World Wide Web ha permesso di aumentare una consapevolezza di carattere socio-economico in ognuno di noi, fornendo strumenti utili per analizzare il contesto quotidiano in cui viviamo. La compenetrazione di internet nel mondo reale, the internet of things, è destinata ad aumentare nel corso degli anni.
Secondo l’International data corporation (Idc), società di ricerche di mercato americana, i vantaggi maggiori saranno per le società che avranno investito seriamente nelle nuove tecnologie, soprattutto nella produzione, nello stoccaggio e nella protezione dei dati.
Dando un’occhiata all’elenco delle trenta start up americane più redditizie, scorgiamo Palantir Technologies, il cui software è utilizzato da Cia e Fbi per il deposito dei dati, Nutanix, che offre servizi di stoccaggio di dati in rete, e altre società come Clowdflare, impegnate nel filtraggio dei dati altrui per garantirne la sicurezza, un servizio che le ha permesso una valutazione di un miliardo di dollari.
Quest’anno la spesa per i servizi sui big data sta aumentando del 30%, raggiungendo un valore di mercato di circa 14 miliardi. E va detto che lo sfruttamento dei dati degli utenti inseriti in rete, a disposizione di imprese e pubbliche amministrazioni, può generare una nuova economia (i 192 dataset messi a disposizione gratuitamente dal Comune di Milano dal febbraio del 2012, ad esempio, hanno permesso lo sviluppo di più di 100 applicazioni). Le informazioni rielaborate e tramutate in app ne sono un perfetto esempio: in Europa, il mercato delle app vale attualmente 17,5 miliardi di euro e secondo le stime della Commissione di Bruxelles, entro il 2018 potrebbe raggiungere quota 63 miliardi.
Ma la sfida reale, il vero “ritorno al futuro”, è l’economia della condivisione (sharing economy), quella forma di cooperazione e di scambio che utilizza le reti sociali per condividere prestazioni e/o prodotti, e che sta spingendo con una pacca sulle spalle il concetto di proprietà a un ridimensionamento della sua portata futura, vista la sua incapacità a sfruttare le potenzialità di asset e a ridistribuire in modo efficace capitali e risorse.
Ad esempio, proprio in questi giorni, il sito di crowdfunding Kickstarter ha superato un miliardo di dollari: si tratta di soldi investiti da privati cittadini per finanziare corti e lungometraggi, dischi, opere artistiche di qualsiasi tipo, ma anche opere di restaurazione. Pensiamo all’editoria: il modello ProPublica ha ottenuto risultati inimmaginabili (premio Pulitzer) in un Paese come il nostro, ma come disse qualcuno prima di me: “Se io posso cambiare, e voi potete cambiare... tutto il mondo può cambiare”.
Oppure pensiamo ad Airbnb, il sito per l’affitto di stanze e appartamenti tra privati: due anni fa aveva raggiunto la quota di un miliardo di dollari di giro di affari, e ad oggi per i fondi di venture capital vale molto di più.
Restando nella sharing economy, Uber, la app che mette in contatto noleggiatori di auto con conducente e chi vorrebbe evitare di alzare il pollicione sul ciglio della strada per uno strappo, attualmente è valutata 3,8 miliardi di dollari, rispetto ai 531 milioni di capitale di cui dispone.
Secondo la società di consulenza Frost & Sullivan, entro il 2016 il mercato del car sharing dovrebbe toccare in America settentrionale l’apice di 3,3 miliardi di fatturato. Mentre sempre secondo Gartner group, solo il mercato dei prestiti peer to peer (tra pari senza intermediazoni bancarie) lo scorso anno aveva un valore di 5 miliardi.
Con il Word Wide Web tutto si può scambiare; dal tempo per andare a fare la spesa agli amplificatori usati, dalle auto alle competenze, fino ad arrivare ai soldi. Se è vero che l’economia della condivisione produce un fatturato non ancora perfettamente traducibile in denaro, è anche vero che i vantaggi sono sotto gli occhi di tutti: meno costi, meno sprechi e community regolate dalla fiducia.
Come scrivevo all’inizio, il punto c’è, ed è il seguente: si tratta di intraprendere questa ri-evoluzione e di assimilarne la capacità di trasformazione della realtà socio-economica di questo pianeta che, come abbiamo già letto, se non vuole schiantarsi contro la propria – (in)comprensibile – testardaggine, dovrà effettuare un deciso e decisivo cambiamento di rotta.
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