Dazi Trump: le conseguenze del protezionismo per il mercato internazionale. Intervista a Stefano Lepri

Ranjitha Mancini

6 Aprile 2017 - 11:09

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Stefano Lepri, editorialista per La Stampa, spiega su Forexinfo.it le implicazioni della politica protezionistica di Donald Trump e le possibili conseguenze dell’introduzione di dazi punitivi.

Dazi Trump: le conseguenze del protezionismo per il mercato internazionale. Intervista a Stefano Lepri

Donald Trump sta facendo tremare il mercato mondiale con la sua minaccia di imporre dei dazi punitivi del 100% sulle importazioni negli USA da parte dei Paesi UE e non solo.

La decisione di Trump di imporre dei dazi punitivi sui prodotti europei è arrivata in risposta al bando UE della carne di manzo americana trattata con ormoni, con una disputa iniziata quasi vent’anni fa.

Pochi giorni fa il tycoon è passato ai fatti firmando due decreti esecutivi per una revisione della politica commerciale americana finalizzata all’individuazione di eventuali «abusi» che abbiano in qualche modo contribuito all’attuale deficit commerciale degli Stati Uniti di 500 miliardi di dollari. Gli USA, infatti, hanno grandi deficit commerciali con molti Paesi dai quali importano, ma dove non riescono ad esportare i propri prodotti.

Ovviamente il presidente USA non potrà imporre i super-dazi su qualsiasi bene, ma solo su importazioni per un massimo di 116,8 milioni di dollari totali, cioè l’equivalente del danno subito a causa del bando UE sulle carni americane. Nel 2016 il totale delle esportazioni UE verso gli USA è stato di oltre 360 miliardi di dollari, per cui si intuisce che l’introduzione dei dazi sarebbe più che altro una punizione «simbolica».

Se Trump porterà avanti il suo progetto, si avrà probabilmente un aumento dei prezzi di gran parte dei prodotti in vendita nei negozi americani. E se i Paesi UE per rappresaglia introducessero a loro volta dazi e contingentamenti sui prodotti USA, quanti I-Phone in meno si venderebbero in Europa?

Forexinfo.it ha posto alcune domande sulla questione a Stefano Lepri, giornalista ed esperto di economia e politica internazionale, da alcuni anni editorialista per La Stampa.

Stefano Lepri spiega in modo chiaro e sintetico le motivazioni e le possibili conseguenze sul mercato internazionale di questa guerra commerciale tra Stati Uniti e Unione Europea.

1. Donald Trump minaccia di imporre dazi del 100% sui prodotti provenienti dai Paesi UE come conseguenza del mancato rispetto da parte dell’UE dell’accordo del 2009 che garantiva l’accesso al mercato europeo delle carni americane non trattate con ormoni. Si tratta soltanto di una strategia per “incutere timore” all’Unione Europea o vi è un rischio concreto che questi dazi siano applicati?

Se davvero lo facesse, sarebbe una rappresaglia meschina in risposta alle richieste di una lobby ristretta. Poca cosa in sé, ma un brutto segnale, perché quando si comincia così non si sa dove si può finire. Come hanno già detto diverse autorità europee, per noi quella della carne è una questione innanzitutto sanitaria, di tutela del consumatore. Quanto al rischio concreto è difficile dire; mi pare che l’amministrazione Trump proceda «a caso», tra affermazioni propagandistiche e aggiustamenti con la realtà. Per esempio, al momento i mercati non credono quasi più alle minacce contro il Messico, come dimostra l’ampio recupero della valuta di quel paese.

2. Intanto Trump ha firmato due decreti per capire in che misura altri Paesi hanno contribuito al deficit commerciale Usa, che ammonta a 500 miliardi di dollari. Per questa analisi è stata stilata una lista di Paesi: Cina e Germania per primi, ma anche altri Paesi europei e del G7, Italia compresa. Pensa che questi Paesi siano effettivamente responsabili di aver approfittato del mercato statunitense, spingendo sulle esportazioni ma non favorendo le importazioni nei propri mercati?

Si tratta di affermazioni demagogiche senza senso. La Cina effettivamente in anni passati teneva forzatamente basso il cambio della propria moneta per esportare di più; oggi casomai è il contrario. E in Europa a chi mai è stato impedito di comprare prodotti americani? Alla quotazione attuale dell’euro la Germania esporta bene, ma la Francia male e se ne lamenta; nessuno dei due Paesi ha il controllo del cambio verso il dollaro che dipende dalla politica monetaria della BCE da tanti altri fattori. La Germania è competitiva nel mondo grazie al contenimento dei salari negli anni prima della crisi, effetto ritardato della riunificazione agevolato da scelte politiche e di relazioni sindacali.

3. Trump forse dimentica che nell’economia di un Paese «import-export» è un binomio indissolubile e che il 90% delle imprese americane è esportatrice, ma anche importatrice. Basti pensare all’enorme quantità di prodotti cinesi utilizzata da molte imprese USA. Se i dazi punitivi diventassero realtà, quali sarebbero le conseguenze per le aziende e per i consumatori americani?

Sarebbero pesanti, come hanno già fatto presente molti in America: prezzi più alti per le merci importate e difficoltà ancora maggiori ad esportare a causa delle rappresaglie. Può esserci la speranza folle che questi danni, grazie alla forza di cui ancora gli Stati Uniti dispongono, divengano apprezzabili solo dopo la prossima scadenza elettorale. Ma, ripeto, non escluderei che alla fine dopo tanto gridare poco accada.

4. Anche alcuni prodotti italiani sono a rischio: Vespa Piaggio, acqua San Pellegrino e vari beni alimentari. Le nostre esportazioni negli USA superano i 40 miliardi di euro, il 10% del totale. Ma non bisogna dimenticare che l’Unione Europea, con i suoi 500 milioni di abitanti, è la più grande e ricca area economica del mondo. Se l’UE opporrà protezionismo a protezionismo, il mercato unico europeo sarà l’unica speranza di salvezza per l’Italia?

Dopo la Germania, il Paese europeo che ha un maggior attivo commerciale con gli Usa è l’Italia, per oltre 20 miliardi. Nella logica di certi discorsi di Donald Trump, quei 20 miliardi che noi incassiamo dovrebbero sparire. Speriamo che una guerra commerciale non ci sia, perché sarebbe dannosissima per tutti; ma se si farà è interesse italiano che l’Europa la combatta con tutte le proprie forze.

5. Qualcuno ha azzardato un paragone tra l’attuale presidente USA e Richard Nixon: anche lui, come Trump, in un periodo di crisi dell’egemonia statunitense, con un dollaro sopravalutato e un crescente deficit commerciale, ha convinto gli elettori sostenendo di voler prendere le distanze dal vecchio governo e utilizzando una retorica contraria a quella ottimistica dei suoi predecessori. E ha imposto dazi del 10% sulle importazioni. Pensa sia un accostamento pertinente?

No. Nixon era un uomo spregiudicato, anzi scorretto come lo scandalo Watergate ha provato, ma sapeva fare politica. Nel 1971 si prefiggeva uno scopo preciso: scaricare sul resto del mondo il costo della guerra del Vietnam. In parte ci riuscì, al prezzo di infliggere all’economia mondiale un periodo di instabilità durato fino alla fine del decennio. Tuttavia si era ben guardato dall’assumere atteggiamenti ostili verso gli alleati europei.

6. Il ricercatore Patrick Kaczmarczyk in un suo recente studio ha dimostrato che, tra il 1876 e la Prima Guerra Mondiale, in Europa si diffuse un forte protezionismo: prima di quella data sia la crescita della produzione che l’export furono molto deboli, mentre durante la fase protezionistica il tasso di crescita della produzione aumentò di più del 100% e l’export del 35%. Il protezionismo quindi non è sempre un male?

Quel periodo storico è stato esaminato a fondo da studiosi di grande valore. La circolazione dei capitali e delle persone era libera. Quanto alle merci, potenza dominante era la Gran Bretagna che per la maggior parte adottò una politica di libero scambio. Tariffe protettive per i beni industriali forse facilitarono lo sviluppo di Paesi che volevano colmare il divario con la Gran Bretagna, come Germania e Stati Uniti; ma crearono anche quella connessione troppo stretta tra interessi padronali e Stati che fu all’origine della Grande Guerra. Il protezionismo agricolo, d’altro canto, è stato solo e sempre uno strumento per arricchire i proprietari terrieri: danneggiava i ceti più modesti e frenava lo sviluppo industriale. Lo «sgangheratissimo» lavoro menzionato, apparso su un sito internet tedesco di estrema sinistra, non dimostra un bel nulla perché non formula nessuna ipotesi convincente sulla concatenazione degli eventi; mentre a me non pare un caso che in quell’epoca lontana le forze nascenti del movimento operaio fossero perlopiù schierate contro il protezionismo.

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