Temere il peggio per le donne afgane è legittimo, soprattutto alla luce di quanto racconta la storia e dalle notizie che circolano in queste ore.
Le prime vittime della conquista talebana dell’Afghanistan sono le donne.
A discapito di quanto dichiarano le milizie che in questi giorni hanno conquistato Kabul, i diritti e le libertà faticosamente conquistati negli ultimi vent’anni saranno ora soppressi. Molto probabilmente ciò che attende le donne del paese è piuttosto un salto indietro nel passato capace di sopprirne la voce in nome della Shari’a.
Le mosse del gruppo estremista volte a cancellare il loro passaggio sono già in atto e la persecuzione femminile è una realtà concreta che non smetterà di mietere vittime.
La differenza tra le parole e i fatti: cosa non torna
La capitale dell’Afghanistan è caduta nelle mani delle truppe di Haiabatullah Akhunzada, leader supremo del gruppo fondamentalista talebano. Iniziano quindi ad essere diramate le prime dichiarazioni ufficiali da parte delle milizie che intendono insediarsi sul territorio per riprenderne il controllo.
Le comunicazioni che riguardano le sorti delle donne che abitano il paese però mostrano evidenti contraddizioni con la situazione che proprio in queste ore caratterizza le vite di innumerevoli studentesse, cacciate dalle proprie università, lavoratrici, allontanate in via definitiva dalle loro occupazioni e bambine, rapite come bottino di guerra per essere date in sposa ai soldati giunti nella città.
Sebbene sia questo infatti il clima che si respira nelle strade, il portavoce dei talebani ha affermato che il nuovo Emirato islamico sarà rispettoso dei diritti delle donne e che le stesse avrebbero continuato ad avere pari diritti, compreso l’accesso all’istruzione.
Per quanto con queste parole il gruppo affermi di essere cambiato, gli osservatori internazionali la pensano diversamente. “I diritti delle donne e le libertà conquistate passo dopo passo in questi venti anni, pure solo quella di potersi istruire... credo che tutto questo sia drammaticamente in forse” dichiara il giornalista Toni Capuozzo a Morning News, “è lecito aspettarsi il peggio”.
Queste posizioni sono suffragate anche dalle cronache che riescono ancora a trapelare dal paese per giungere fino ai media.
Al Jazeera, la principale emittente in lingua araba del mondo, riporta la notizia che le donne che hanno provato a criticare il nuovo regime o hanno violato le regole imposte sono state umiliate o picchiate pubblicamente, alcune persino uccise.
Un esempio ancor più emblematico è il video ormai virale, condiviso per la prima volta dall’attivista per i diritti umani Masih Alinejad, della ragazza anonima che tra le lacrime ripete:
«Non contiamo perché siamo nati in Afghanistan. Non posso fare a meno di piangere. A nessuno importa di noi. Moriremo lentamente nella storia».
La realtà prima del 2001: ecco cosa temono le donne oggi
Questa parole tanto drammatiche non sono solo la fragile richiesta di aiuto di una donna consapevole del destino che l’attende sulla base di ciò che accade quotidianamente sotto i suoi occhi: sono anche e soprattutto il frutto della memoria storica dell’occupazione talebana.
Prima dell’arrivo degli americani sul suolo nazionale e dei conflitti che hanno lentamente restituito ai civili i loro territori, i talebani governavano il paese dal 1996.
La legge del tempo prospettava un contesto in cui alle donne non era consentito uscire di casa senza un accompagnatore di sesso maschile ed era proibito ridere in presenza di uomini o avere una qualsiasi forma di contatto fisico con il sesso opposto. Era passibile di punizione corporale anche solo indossare delle scarpe che potessero far udire il suono dei propri passi per strada.
Questo scenario potrebbe presto ripetersi e non verrebbero, come accade oggi, cancellati solo i volti delle donne occidentali presenti sui cartelloni pubblicitari di Kabul. Ad essere oscurati agli occhi del mondo sarebbero tutti i volti delle cittadine dell’Afghanistan: il burqa, come in quegli anni, sarà il solo indumento autorizzato dalle autorità.
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