Se l’Australia è il cavallo di Troia Usa per arrivare a Taiwan. E depotenziare l’RCEP

Mauro Bottarelli

2 Settembre 2021 - 07:30

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Dall’aprile 2020, Canberra sarebbe sotto attacco hacker cinese per le sue posizioni su Covid e One China. Ma al centro c’è la ratifica (entro quest’anno) del più grande accordo commerciale al mondo

Se l’Australia è il cavallo di Troia Usa per arrivare a Taiwan. E depotenziare l’RCEP

La notizia non è di quelle destinate a scompaginare le edizioni dei giornali o le scalette dei tg: stando a un report di Bloomberg, dall’aprile del 2020 la Cina avrebbe dato vita a un’ampia e pervasiva campagna di attacchi hacker contro siti e account governativi australiani. A scatenare la campagna, le dichiarazioni del primo ministro, Scott Morrison, rispetto alla necessità di un’inchiesta indipendente sulle origini del Covid.

Nonostante Pechino abbia sempre negato, a detta di Robert Potter, responsabile dell’aziende di cyber-security australiana Internet 2.0, all’inizio è stato come una scampanellata. Qualcuno che si avvicinava alla tua porta e suonava, quasi e volersi palesare.. Ma l’impronta cinese in quell’attività è rintracciabile in quasi tutti i server governativi australiani e mostra un andamento altalenante che sembra tracciare alla perfezione gli stati di salute dei nostri rapporti bilaterali.

E che Pechino avesse messo nel mirino Canberra come principale bersaglio dimostrativo della sua capacità di ritorsione lo si era capito la scorsa primavera, quando i produttori di vino australiani dovettero ammettere un drastico cale dell’export verso la Cina continentale, a seguito delle continue dispute diplomatiche. Culminate proprio a ridosso di quell’ammissione con la formale approvazione da parte del governo Morrison di un memorandum d’intenti con gli Usa in difesa dell’indipendenza di Taiwan. Questi due grafici mettono in prospettiva il carico economico di questa scelta,

Export vino australiano in Cina Export vino australiano in Cina Fonte: Financial Times
Bilancia commerciale Australia-Cina Bilancia commerciale Australia-Cina Fonte: Bloomberg

limitato non solo alle esportazioni enologiche ma all’intero surplus commerciale che Canberra vanta con Pechino, suo primo partner in interscambio. Dati velenosamente commentati dallo stesso ambasciatore del Dragone in Australia: Sta alla gente decidere. Forse, i cittadini cinesi cominceranno a chiedersi il perché dover bere vino e mangiare manzo australiani?

Ma quella che può apparire una schermaglia relativamente di poco conto rispetto agli equilibri geopolitici in gioco in queste ore, giova sottolineare l’interpretazione che di essa ha dato Hugh White, ex funzionario dell’intelligence e ora professore emerito di studi strategici alla Australian National University: Il trattamento riservato da Pechino all’Australia è stato distintivo, se non addirittura unico. Non sono stato in grado di identificare un’altra nazione che abbia subito una tale gamma di pressioni in un ambito così ampio di aree di interesse. Da tempo i cinesi erano desiderosi di mostrare al resto dell’Asia cosa fosse in discussione nel momento stesso in cui decidevano se schierarsi con Pechino o Washington. L’Australia si è rivelata la vittima e il bersaglio perfetto a tale scopo.

E questa strategia risponde a un nome preciso. Anzi, un acronimo: RCEP. Ovvero, Regional Comprehensive Economic Partnership. Tradotto, il più grande blocco commerciale del mondo, come queste infografiche mostrano chiaramente in tutti i loro dettagli.

I numeri dell'accordo RCEP I numeri dell’accordo RCEP Fonte: Visual Capitalist
I Paesi aderenti all'accordo RCEP I Paesi aderenti all’accordo RCEP Fonte: Visual Capitalist

Siglato ufficialmente proprio sul finire del 2020, con l’Australia che ha apposto la sua firma nel novembre di quell’anno (nonostante le richieste di indagini sul Covid), rappresenta un accordo di libero scambio fra 15 nazioni della regione dell’Asia-Pacifico, formalizzato dopo 28 round negoziali che hanno richiesto 8 anni di mediazioni. Al 30 aprile scorso, Cina, Giappone, Thailandia e Singapore avevano ratificato a livello politico l’accordo e, stando agli accordi ufficiosi contratti, tutti gli altri membri si sono impegnati a chiudere il processo formale entro il 31 dicembre.

Di fatto, con l’inizio del 2022, il RCEP sarebbe operativo. E darebbe vita a un accordo commerciale in grado di rappresentare il 30% del Pil e della popolazione del pianeta. Più dell’Unione Europea e del vecchio Nafta (Usa, Canada e Messico), persino più dell’enorme African Continental Free Trade Area (AfCFTA) su quasi tutte le metriche alternative al numero di partecipanti. Stando a calcoli della Brookings Istitution, l’income globale potrebbe aumentare di 209 miliardi di dollari l’anno e il commercio di 500 miliardi entro il 2030. Ma, soprattutto, una simile alleanza garantirebbe un livello di penetrazione enorme nell’area all’economia cinese, di fatto nella condizione di garantirsi un’egemonia a spese proprio degli Usa.

Gli ambiti di interesse, infatti, sono a dir poco strategici: investimenti, competitività, e-commerce, telecomunicazioni, proprietà intellettuale, tutela ambientale e politiche di sostegno statale. L’Australia è attesa alla ratifica finale nel mese di novembre: la Cina ha voluto aumentare il grado di pressione, avendo scorto in Canberra l’anello debole alle lusinghe Usa e il possibile singolo esempio da colpire per educarne maosticamente cento (anzi, 13)? In gioco c’è molto più che la cyber-security di qualche account governativo o l’export di vino.

C’è il controllo di un’area strategica e un ruolo definitivo da primo player globale. In tal senso, Taiwan potrebbe agire da elemento di disturbo, in caso di tensioni che portino a una reazione della comunità internazionale contro Pechino, in stile Hong Kong. Ma occorre fare presto, prima della fine dell’anno. E l’altra notte Joe Biden è stato chiaro, nel giustificare ancora una volta il ritiro dall’Afghanistan: il suo ruolo è quello di guidare l’America verso altre sfide. Fra cui, quella cinese.

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