Copyleft o permesso d’autore: di cosa si tratta

Francesca Nunziati

14 Settembre 2022 - 19:42

Il copyleft è un metodo generico per rendere un programma (o altro lavoro) libero e imporre che tutte le modifiche e versioni estese del programma siano anch’esse software libero. Vediamo come.

Copyleft o permesso d’autore: di cosa si tratta

Come si può facilmente intuire, il termine “copyleft” nasce come gioco di parole e come “storpiatura” del termine “copyright” (lett. “diritto di copia”), espressione che nei paesi anglofoni indica l’insieme dei diritti che tutelano le opere creative.

Il copyleft è il contrario del copyright. Infatti il simbolo è una C girata dalla parte opposta a quella del copyright. Se il copyright tutela le opere creative, dando all’autore la possibilità di decidere sul suo lavoro, ma soprattutto sulle sue modifiche e rielaborazioni, il copyleft lascia liberi tutti quelli che non sono autori dell’opera di poterla utilizzare.

In pratica, il copyleft è un movimento basato sul diritto di copia e nasce proprio con internet e con la possibilità data dal web di poter mettere a disposizione di chiunque un’opera, non solo per utilizzarla ma per implementarla. Insomma: Copyright e Copyleft possono essere viste come le due facce di una stessa medaglia.

Il copyleft è legato al concetto della libera disponibilità online di contenuti digitali e il concetto di Open Access. Giuridicamente parlando, il copyleft consente agli utenti il diritto di usare l’opera dell’ingegno, di modificarla e di diffonderla in maniera meno vincolata. Sebbene possa interessare qualsiasi opera dell’ingegno, in genere quando si parla di copyleft si fa riferimento al software. Infatti questo concetto si è sviluppato nel settore informatico ed è proprio dei software liberi.

Ma vediamo insieme la storia e i vari aspetti di questa particolare forma di licenza:

La Storia del Copyleft

Le prime testimonianze dell’uso di questo neologismo risalgono alla fine degli anni settanta quando gli hacker per scherzo scrivevano nei credits relativi al software da loro sviluppato la frase “copyleft – all wrongs reversed”.

Secondo Richard Stallman, tra i principali teorici del copyleft e portavoce della comunità hacker, il termine viene da una lettera che Don Hopkins (un artista e programmatore specializzato in interazione uomo-computer e computer grafica) gli mandò nel 1984 o 1985, nella quale era scritto: “Copyleft — all rights reversed” cioè “Copyleft — tutti i diritti rovesciati”. A queste annotazioni, spesso veniva associato anche il tipico simbolo del copyright (©) ma con la C al rovescio.

Al di là della semplice analisi semantica e ricostruzione storica del termine, il concetto di copyleft si è poi sviluppato e meglio definito negli anni successivi parallelamente all’affermazione del software libero e open source.

La licenza che per antonomasia incarna il senso del “copyleft” in campo informatico è la licenza GNU GPL la cui prima versione risale al 1989 e oggi è ancora la licenza più utilizzata per il rilascio di software a codice sorgente aperto.

Logo del Copyleft Logo del Copyleft Simbolo del copyleft

L’effetto di questa licenza è quello di far leva sul copyright non tanto per tenere sotto chiave l’opera a cui è applicata, per imporre vincoli sul suo utilizzo; al contrario le licenze copyleft fanno leva sul copyright per consentire utilizzi liberi dell’opera, la licenza diventa non solo un elenco di vincoli ma anche un documento che stabilisce una serie di libertà per gli utilizzatori.

Ecco spiegata l’idea di ribaltamento che si cela nel gioco di parole sopra illustrato. Vi sono poi diverse espressioni del modello copyleft.

Dagli anni ’90 in poi, complice anche l’esplosione di internet come fenomeno di massa, questo innovativo modo di gestire il copyright (che appunto possiamo chiamare “modello copyleft” o “modello open”) è stato via via sperimentato in altri campi della creatività.

Nacquero così varie licenze pensate per funzionare non solo sul software ma anche sui testi, sulle immagini, sulle musiche, sui video, sulle banche dati; e con le licenze nacquero anche una serie di progetti di divulgazione e di enti non profit o accademici con lo scopo di promuovere questa nuova pratica. Il progetto più lungimirante è indubbiamente Creative Commons, fondato nel 2001 da Lawrence Lessig e tutt’ora considerato il principale riferimento.

Le Principali licenze

In questa sezione raccogliamo le principali licenze sul modello “open/copyleft”, suddivise secondo le tre categorie “licenze per contenuti”, “licenze per software” e “licenze per banche dati”.

Le licenze per contenuti

Nell’ambito dei contenuti creativi (come testi, immagini, video, musiche) indubbiamente le licenze più note e più utilizzate sono le Creative Commons (abbreviate spesso con CC). Un set di sei licenze, a cui si aggiunge una liberatoria per il rilascio in pubblico dominio (CC Zero), diffuse dall’omonimo ente no-profit statunitense a partire dal 2002, disponibili nelle principali lingue e arrivate attualmente alla versione 4.0.

Esistono comunque anche altre licenze per contenuti creativi meno note delle CC ma comunque coerenti con il modello di “open/copyleft”. Una licenza molto utilizzata è la GNU Free Documentation License (FDL) utilizzata anche da Wikipedia fino al passaggio alla Creative Commons By-SA avvenuto nel 2009.

Altra licenza degna di nota è la Licence Art Libre di origine francese.

Le licenze per software

Le licenze per software libero e open source sono davvero numerosissime. L’attività di selezione e promozione delle licenze open per software è svolta da due grandi enti no-profit di respiro internazionale: la Free Software Foundation e la Open Source Initiative.

I due enti hanno stabilito in specifici documenti quali caratteristiche devono avere le licenze per ottenere approvazione e periodicamente, previa verifica del rispetto di questi parametri, inseriscono le varie licenze proposte da aziende ed enti no-profit in appositi elenchi pubblici.

Buona parte delle licenze (le più note e utilizzate) sono presenti in entrambi gli elenchi. Le licenze per software libero e open source sono normalmente classificate secondo tre macrocategorie: licenze permissive, licenze di copyleft debole, licenze di copyleft forte.

Le licenze per banche dati

Le banche dati sono un tipo di opera molto particolare, soggetto a una regolamentazione a sé stante rispetto alle altre tipologie di opere dell’ingegno. Tra l’altro in Unione Europea sono tutelate da un diritto chiamato non a caso “diritto sui generis” che richiede alcune accortezze. Non tutte le licenze in circolazione trattano correttamente questo diritto e dunque alcune potrebbero non funzionare per le banche dati.

Di conseguenza, chi è in cerca di una licenza per un dataset può utilizzare una delle seguenti soluzioni:

  • le licenze Creative Commons, a condizione che si tratti di quelle in versione 4.0 o successiva
  • la licenza Open Database License (ODbL) della Open Knowledge Foundation
  • altra licenza governativa approvata nel proprio paese (in Italia ad esempio alcune pubbliche amministrazioni utilizzano la Italian Open Data License 2.0, che però è sempre meno utilizzata a favore di un passaggio alle Creative Commons)

Altra annotazione importante: affinché un progetto di rilascio/condivisione di dati possa essere qualificato come “open data” secondo la definizione più accreditata a livello internazionale, deve garantire un livello di apertura molto alto; sono quindi deprecate licenze che impongano limitazioni sugli utilizzi commerciali e licenze che non consentano di fare modifiche e opere derivate dei dataset.

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