Le TV nazionali moriranno, possono solo decidere quanto in fretta

Dimitri Stagnitto

16/07/2021

16/07/2021 - 12:19

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L’arrivo delle OTT sul mercato dei contenuti multimediali sta per spazzare via la televisione per come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi.

Le TV nazionali moriranno, possono solo decidere quanto in fretta

La televisione è probabilmente l’oggetto dell’era moderna che più di tutti può fare da metro di misura del tempo che passa e da simbolo di appartenenza a una certa generazione: quelli che l’hanno vista arrivare, in bianco e nero e con un solo canale, quelli che l’hanno avuta in casa, a colori, con un telecomando che arrivava a 6/7 canali da guardare frequentemente, quelli della TV satellitare, in HD, con centinaia di canali a pagamento tra cui scegliere e infine quelli che la TV ce l’hanno in casa ma l’accendono poco e se lo fanno è per collegare una console di gioco o per utilizzare le funzionalità della TV connessa, come se questa fosse uno dei tanti device collegati al web solo con la caratteristica di avere molti pollici di superficie da guardare.

Tipicamente chi fruisce della tv come device connesso lo fa per selezionare contenuti multimediali on demand (VOD) da apposite APP installate sulla TV (ha ancora senso chiamare con lo stesso nome una cosa del genere?) i cui nomi sono oggi noti a tutti e che vanno via via a sostituire nella mente i vecchi 6/7 canali dell’ormai antico telecomando: YouTube, Netflix, Amazon Prime, Twitch, Rakuten, Chili, e così via...

Questa tendenza ormai consolidata sta probabilmente per generare la tempesta perfetta nel mondo della TV tradizionale, quella dei canali del telecomando, che potrebbe trovarsi da un momento all’altro ad essere fuori mercato dopo decenni di dominio incontrastato nel mondo dei media.

Già nel 1995 George Gilder, un economista e futurologo americano, aveva previsto questo scenario (invero dandolo per molto più imminente di quanto è in effetti stato) intercettando la dinamica per cui l’aumento esponenziale della banda di dati scambiabili in rete tra dispositivi avrebbe consentito un’esplosione della varietà dei contenuti e quindi una segmentazione delle audience tale da distruggere il modello di business del media di massa per eccellenza: la TV generalista.

La visione di Gilder è ancora oggi (e forse purtroppo per sempre) solo parzialmente avverata e peccava forse di ottimismo verso l’umanità: secondo l’autore nell’era dell’Information Technology ciascuno avrebbe prodotto e fruito di contenuti estremamente di nicchia seguendo i propri interessi e le proprie inclinazioni secondo un meccanismo down-top, in realtà questo è stato abbastanza vero nel primo decennio del nuovo secolo quando internet era ancora un far west perlopiù libero, vivo e stimolante.

L’avvento dei colossi dei social, a partire da Facebook, hanno portato a dinamiche mutuate dai mass media storici per cui pur esistendo ancora potenzialmente una scelta pressoché infinita di contenuti la grande massa degli utenti si concentra nel seguire pochi «campioni», esattamente come i vecchi format della TV. Non è la RAI, Bim Bum Bam, Grande Fratello, Amici, Isola dei Famosi e così via sono stati scalzati da Me Contro Te, Fivij, Ferragnez e compagnia mentre la pay TV di Sky, perso il calcio (anche quello finito quest’anno su distribuzione digitale), è già ai titoli di coda non potendo competere sul resto dell’offerta (film, serie e format esclusivi) con i nuovi colossi digitali.

Gli ingredienti della tempesta perfetta del mondo televisivo

Come anticipato nelle righe precedenti, dopo oltre 50 anni di predominio assoluto la Televisione «tradizionale» sembra essere al suo tramonto dove l’unica scelta è quella tra una lenta agonia e una decapitazione su pubblica piazza.

Prima di analizzare i due scenari è bene sottolineare un elemento importante: al netto dei media su cui si svolge la battaglia stiamo assistendo a un possibile passaggio storico dal punto di vista del controllo dei media dominanti in Italia e nei singoli paesi europei: i leader della televisione sono stati player nazionali, in Italia RAI, Fininvest poi Mediaset e Telemontecarlo poi LA7.
Player esteri sono stati in grado in questo ecosistema di appropriarsi delle nicchie: Sky la Pay TV, Discovery i canali tematici verticali.

Nella transizione in atto queste aziende, veri e propri giganti nel panorama nazionali, come novelli Gulliver appaiono come nani di fronte alla dimensione dei nuovi leader, di fatto tutti americani, imponendo da un lato importanti ragionamenti sul fronte politico (che la politica non ha nemmeno avviato, né probabilmente avvierà mai), dall’altra prese di coscienza e ragionamenti non meno importanti nei management delle aziende storiche nazionali che stanno affrontando con un’incredibile inerzia la profonda e rapidissima mutazione del loro ecosistema di riferimento rischiando un’estinzione rapida e incredibile che mai si sarebbe immaginata fino a solo 20 anni fa, a meno di essere George Gilder.

Uno studio di Magna Global del 2019 stimava che il 29% del traffico televisivo avvenga tramite OTT ma la raccolta pubblicitaria che ne deriva è soltanto il 3% del budget televisivo. Certamente negli ultimi due anni il divario si è allargato.

Che questo disallineamento possa arrivare riequilibrarsi anche in modo prepotente in un singolo anno, come un elastico teso che viene rilasciato, è più questione di quando che di se. Per i broadcaster nazionali un calo di fatturato improvviso del 30% o più in uno o due anni si tradurrebbe in scenari apocalittici.

I broadcaster nazionali stanno quindi procedendo in modo anche piuttosto inconsapevole verso il patibolo per motivazioni simili a quelle per cui poco più di due secoli fa ci finì la nobiltà francese: totale mancanza di visione e coscienza dei mutamenti in atto.
La frase di Maria Antonietta, che pare essere un falso storico ma che è del tutto verosimile visto l’esito finale è la perfetta rappresentazione della visione attuale del management di queste società: ’’Se il popolo non ha pane, che mangi brioches’’.

I tempi sono ormai strettissimi e la sentenza è emessa, eppure si sarebbe per queste aziende la possibilità di commutare la pena in un ergastolo che lasci aperta la porta a un piano di fuga e, se possibile, di riscatto.
I broadcaster nazionali hanno ancora i fatturati, il posizionamento su ampie fasce di popolazione e forse la forza di gettarsi in un importante processo di innovazione che vada a spostare i pesanti piedi di argilla dalle acque rilasciate dalle OTT internazionali verso delle isole ancora asciutte.

In questa direzione gli unici alleati possibili come stampella nel passaggio ed elementi di contaminazione culturale sono gli attori del digitale di dimensione nazionale, ovvero i publisher web, a loro volta minacciati dallo strapotere delle OTT del digital ma più piccoli ed elastici e quindi più consapevoli delle dinamiche in atto e delle possibili soluzioni difensive rispetto alle implacabili logiche di Google & co.

L’unica possibile via di salvezza passa dalla cooperazione se non dal consolidamento di broadcaster ed editori digitali con l’obiettivo certo di allungare il proprio orizzonte temporale e quello incerto ma necessario di riuscire a costruire in tempi ragionevoli un nuovo modello unificato che porti l’unione delle forze a poter competere nel nuovo mondo che sta arrivando.

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